biografie di grandi uomini di destra.

Il Duce fu certamente, in quanto fondatore del Fascismo e capo del Governo per 23 anni la personalità italiana più importante del XX secolo.
Accanto a lui però ci furono personaggi che, anche se in tono minore, furono molto noti e fondamentali per lo sviluppo del regime fascista in Italia.
In questa sezione Ilduce.net presenta ai suoi visitatori delle brevi biografie riguardanti questi personaggi che ebbero un ruolo di primo piano nella vita del paese durante il Ventennio fascista.
Se anche tu vuoi partecipare a questa sezione puoi farlo inviandoci la biografia da te scritta all'indirizzo: info@ilduce.net  ;

 

Qui troverete una breve biografia su quella che fu la vita di Benito Mussolini. Ovviamente racchiudere la vita di un uomo che governò l'Italia per oltre 20 anni in una sola pagina è impresa ardua ed impossibile. Per questo la seguente sarà solo un breve riepilogo e vi rimandiamo alle altre sezioni per più dettagliate informazioni sulla vita del Duce.

 

Mussolini a 15 anniBenito Amilcare Andrea Mussolini nasce il 29 luglio 1883 a Dovia di Predappio, nel Forlivese, da Alessandro, fabbro ferraio, e Rosa nata Maltoni, maestra elementare. Dapprima studia nel collegio salesiano di Faenza (1892-1893), poi presso il collegio Carducci di Forlimpopoli, conseguendo anch'egli il diploma di maestro elementare.
Sull’esempio del padre, esponente del socialismo facinoroso, libertario, anarchico e violentemente anticlericale di Romagna, comincia la sua carriera politica con l'iscrizione al Partito Socialista Italiano (PSI) a soli 17 anni (1900). Poco dopo, forse allo scopo di sottrarsi al servizio militare, si reca in Svizzera, dove fa il suo ingresso negli ambienti rivoluzionari europei e si accosta alle letture dei principali filosofi politici del secolo XIX, tra cui Marx, Proudhon, Pareto e Nietzsche. Si lega in particolare ai rivoluzionari Giacinto Menotti Serrati, futuro comunista, e Alexandra Balabanov, futura esponente del PSDI.
Rientrato in Italia nel 1904 dopo essere stato espulso da diversi cantoni svizzeri per ripetuto ed esasperato attivismo antimilitarista e anticlericale, si avvale di un’amnistia ai renitenti alla leva, per compiere quindi il servizio militare nel reggimento di bersaglieri di stanza a Verona. Per un breve periodo trova anche il tempo per insegnare presso Tolmezzo ed Oneglia (1908), dove tra l'altro collabora attivamente al periodico socialista “La lima”, dopodiché torna a Dovia.
Quivi continua un’incessante attività politica e, fra l'altro, viene imprigionato per dodici giorni per aver sostenuto uno sciopero di braccianti. Nel 1909 viene chiamato a ricoprire la carica di Segretario della Camera del Lavoro di Trento, allora austriaca, e a dirigere il quotidiano “L'avventura del lavoratore”. Si scontra presto con gli ambienti moderati e Cattolici e, dopo sei mesi di frenetica attività propagandistica, viene espulso dall’Impero Asburgico tra le vibranti proteste dei socialisti trentini suscitando una vasta eco in tutta la sinistra massimalista italiana.
Tornato a Forlì, si unisce senza alcun vincolo matrimoniale civile o religioso con Rachele Guidi, figlia di una concubina del padre. Insieme ebbero cinque figli: Edda nel 1910, Vittorio nel 1915, Bruno nel 1918, Romano nel 1927 e Anna Maria nel 1929. Nel 1915 sarebbe stato celebrato il matrimonio civile mentre nel 1925 quello religioso.
Contemporaneamente la dirigenza socialista forlivese gli offre la direzione del settimanale “Lotta di classe” e lo nomina proprio segretario. Al termine del congresso socialista a Milano dell'ottobre 1910, ancora dominato dai riformisti, Mussolini pensa di scuotere la minoranza massimalista, anche a rischio di spaccare il partito, provocando l'uscita dal PSI della federazione socialista forlivese, ma nessun'altro lo segue nell'iniziativa.
Sopraggiunta la guerra in Libia, Mussolini appare come l'uomo più adatto a impersonare il rinnovamento ideale e politico del partito. Condannato a un anno di reclusione, poi ridotto a cinque mesi e mezzo, per le manifestazioni organizzate in Romagna contro la guerra in Africa, diventa protagonista del congresso di Reggio Emilia (1912), ottenendo l’espulsione dal partito della corrente più riformista rappresentata da Bonomi e Bissolati. Assunta la direzione del quotidiano del partito “L’Avanti!” alla fine del 1912, dà al socialismo Italiano una connotazione rivoluzionaria e partecipativa.
Allo scoppio del primo conflitto mondiale, Mussolini si pone inizialmente sulla posizione ufficiale del partito, la neutralità. Nel giro di pochi mesi, però, nel futuro Duce matura il convincimento che l'opposizione alla guerra avrebbe finito per trascinare il PSI ad un ruolo sterile e marginale, mentre sarebbe stato opportuno sfruttare l'occasione per riportare le masse sulla via del rinnovamento rivoluzionario. Interpretando il pensiero di buona parte della corrente massimalista e delle masse trascinate nell’esperienza della “settimana rossa” del giugno 1914, si dimette dalla direzione del quotidiano socialista il 1° Guerra mondiale - In trincea20 ottobre 1914, proprio due giorni dopo la pubblicazione di un suo articolo che faceva appunto notare il mutato programma, “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”. Cerca perciò di portare tutto il partito verso le sue posizioni, senza riuscirvi. Decide così di fondare un suo giornale e ai primi di novembre nasce “Il Popolo d'Italia”, foglio socialista e nazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa. Il giornale ottiene subito un clamoroso successo, ma, a seguito di queste prese di posizione opposte alle direttive del partito, il 25 novembre 1914 viene espulso dal PSI.
Con l’entrata in guerra dell’Italia viene richiamato alle armi (agosto 1915). Dopo essere stato seriamente ferito durante un'esercitazione (1917) ritorna alla guida del suo giornale, dalle colonne del quale rompe gli ultimi legami con la vecchia matrice socialista, prospettando l'attuazione di una società produttivistica capace di soddisfare le esigenze economiche di tutti i ceti, risolvendo la lotta di classe e superando quindi da un lato il liberalismo e dall’altro il bolscevismo. E' la nascita dell’Idea Fascista. Il 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro a Milano, con un memorabile discorso, Mussolini, fonda il primo nucleo di quello che sarà il Partito Nazionale Fascista, i Fasci di Combattimento, raccogliendo intorno a sé uomini e idee della sinistra radicale e della destra nazionalista più accesa. L'iniziativa, inizialmente passata in sordina, raccoglie lentamente sempre più consensi e il Fascismo inizia a caratterizzarsi come forza organizzata in funzione antisindacale e antisocialista. Mussolini ottiene crescenti adesioni e pareri favorevoli da tutti i settori agrari e industriali, dai contadini agli operai, dagli imprenditori ai proprietari terrieri, dai ceti deboli ai ceti medi, ai ceti alti.
Ormai forte e organizzato, Mussolini decide la trasformazione in Partito Nazionale Fascista (novembre 1921) e si avvia alla Rivoluzione, che avviene il 28 ottobre 1922 con la storica Marcia su Roma. Il Re lo chiama quindi al Quirinale per formare il nuovo Governo Fascista di unità nazionale, costituito da un gabinetto di larga coalizione che comprende anche i liberali e i popolari. Il Governo si consolida ulteriormente con la vittoria nelle elezioni del 1924.
Successivamente Mussolini attraversa un periodo di grande difficoltà a causa del misterioso assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924). Mussolini reagisce da grande statista prendendosi le responsabilità politiche dell’accaduto, mantenendo intatta la fiducia del Re e del Popolo. Con la volontaria emarginazione delle altre forze politiche, il PNF assurge al ruolo di partito unico del Regno e Mussolini, cui il Re conferisce ufficialmente, accanto al titolo di Presidente del Consiglio, quello di Duce del Fascismo e Capo del Governo, riesce così ad intraprendere con ferma decisione un enorme quantità di iniziative che portano l’Italia ad incrementare i propri indici di benessere e di potenza in modo eccelso. La sua popolarità cresce così vertiginosamente e ormai egli è il restauratore delle sorti d’Italia, il Capo per eccellenza.
La Bonifica delle paludi PontineTra gli innumerevoli successi del Regime si annoverano in particolare la risoluzione dell'annosa questione romana attraverso il Concordato (Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929), la bonifica di intere zone d’Italia e la costruzione dal nulla di un’intera nuova Provincia (Littoria, 1932), il trionfo nella Guerra d’Etiopia con il ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma (9 Maggio 1936), la soluzione dei problemi igienico-sanitari del Paese, il rinnovamento dell’ordine legislativo e giudiziario, l’istituzione di un nuovo ed eccellente sistema corporativo e sindacale, la promozione dei valori etici, sociali, religiosi e della Romanità del Popolo d’Italia, il prestigio e la forza della Patria all’estero (da ricordare l’occupazione momentanea di Corfù contro l’ingerenza greca nel 1923 e l’annessione definitiva di Fiume all’Italia, 1924), e così via.
Tuttavia, con il passare del tempo, inizia purtroppo ad emergere sempre più la parte retorica e demagogica della dittatura personale, che rischia vieppiù di offuscare tutte le straordinarie benemerenze del Fascismo e del suo Duce.
Isolato dalle “demoplutocrazie occidentali” durante l’impresa d’Etiopia (inique sanzioni), si avvicina lentamente ma inesorabilmente alla Germania nazionalsocialista, pur avendola più volte duramente attaccata per la politica razziale ed espansionistica (annessione dell’Austria, 1938). Eppure il Duce ottiene un successo di rilievo con il Patto di Monaco dello stesso 1938, che sembra sortire il mantenimento della pace mondiale. Tuttavia, ormai considerato in modo ostile dalle demoplutocrazie e subendo il fascino della dittatura hitleriana, giunge alla promozione ed alla promulgazione di inaspettate leggi razziali di marca antisemita (1938), le quali, benché assai generiche e blande, getteranno per sempre un’ombra sul suo operato. Con la firma di un vincolante Patto d'Acciaio (1939), si assiste ad una definitiva alleanza internazionale con la Germania.
Con lo scoppio della II Guerra Mondiale, il Duce, d’accordo col Re e con gli altri Enti supremi del Regno, decide inizialmente per la non-belligeranza, ma, entusiasmato dai repentini successi iniziali di Hitler e pressato da parte della dirigenza del Regime e dell’opinione pubblica, si risolve per l’entrata in guerra a fianco dell’alleato tedesco il 10 giugno 1940. Ciò avviene benché il Duce sia impreparato militarmente e sconsigliato dai più esperti esponenti militari del Regime, nell'illusione di un rapido e facile trionfo. Mussolini mentre suona il violino
Ciò è purtroppo l’inizio della fine, perché nel giro di tre anni gli effimeri successi iniziali si trasformano in sonore sconfitte che preludono al peggio. L’Impero viene già perso nel 1941 e in Grecia le operazioni falliscono miseramente.
Dopo l'invasione anglo-americana della Sicilia e uno dei suoi ultimi colloqui con Hitler (19 luglio 1943) viene sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo (25 luglio 1943) e posto agli arresti dal sovrano che tenta così di salvare la propria testa dalle responsabilità condivise con il fascismo per vent’anni. Trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso, il 12 settembre viene liberato dai paracadutisti tedeschi e portato prima a Vienna e poi in Germania, dove il 15 settembre proclama, sotto la pressione e la protezione di Hitler, la costituzione del Partito Fascista Repubblicano e della Repubblica Sociale Italiana, di cui diventa Presidente della Repubblica e Capo di Governo, in quasi totale dipendenza da Hitler. La residenza del governo viene posta a Salò, nel bresciano, e la zona controllata dalla Repubblica corrisponde pressapoco al nord del Paese. Si tentano così di ricuperare, almeno parzialmente, le idealità del Fascismo della prima ora.
Ormai stanco, indebolito, isolato e privato di ogni credibilità, Mussolini assiste alla tragica disfatta dell’Asse e quando gli ultimi reparti tedeschi vengono sconfitti, propone ai capi partigiani un passaggio ufficiale di poteri, per evitare le violenze alla fine della guerra, che viene respinto.
Risoltosi a rifugiarsi in Svizzera insieme all’amante Claretta Petacci, si dirige verso la Valtellina con quel che era rimasto del Governo e guardato a vista da una colonna tedesca. Viene però riconosciuto a Dongo dai partigiani, e assassinano barbaramente il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra, nel Comasco, da agenti ancora sconosciuti, per poi farne scempio nell’orgia di Piazzale Loreto. Le spoglie mortali del Duce ebbero infine pace con la sepoltura nella natia Predappio avvenuta soltanto nel 1957.
Tra gli scritti del Duce si annoverano: “Claudia Particella, l'amante del Cardinal Madruzzo” (romanzo apparso a puntate su “Il Popolo” per 57 giorni a partire dal 20 gennaio 1910); “La tragedia di Mayerling” (1910, non pubblicato); “La mia vita” (1911-12); “Giovanni Huss il veridico” (1913); “Vita di Arnaldo” (1932); “Scritti e discorsi” (1914-39, 12 volumi); “Parlo con Bruno” (1941).

 

 

EMILIO DE BONO
(1866-1944)

 

Uomo militare di stampo Risorgimentale, Quadrumviro rappresentante l’ala militare del Fascismo, fu eroe di tutte le guerre patrie sin dalle prime spedizioni africane del 1887. Se non altro per la vita spesa al servizio dell’Italia, avrebbe meritato ben altra sorte di quella che lo colpì ormai vecchio nel 1944.

Emilio De Bono nacque il 19 marzo 1866 a Cassano d'Adda, in Provincia di Milano, da Giovanni ed Emilia. Cresciuto in un ambiente militaresco e appassionato sin da giovinotto alla vita guerresca, si iscrisse giovanissimo all'Accademia intraprendendo la carriera militare nel Regio Esercito, quale Bersagliere. Nel 1887 partecipò alla Campagna d'Africa. Sposò Emilia Monti Maironi, giovane nobildonna, e passò la giovinezza trasferendosi di città in città nelle varie accademie e stazioni militari, tra cui per lungo tempo Trapani, divenendo Tenente e poi Capitano.
Con l'inizio del nuovo secolo divenne Colonnello del 15° Reggimento Bersaglieri e in vista della Guerra di Libia (1912) divenne Generale e Capo di Stato Maggiore in guerra. Pluridecorato durante la Prima Guerra Mondiale si dedicò anche alla composizione poetica, scrivendo tra le altre, le parole della canzone-poesia "Monte Grappa", interamente in endecasillabi, musicato dall'allora Capitano Antonio Meneghetti.
Nel dopoguerra iniziò la sua attività politica capeggiando, assieme al Generale Fara, la parte dell'esercito che nel 1920 aderì compatta al Fascismo e partecipò alla fondazione del PNF, rappresentandone l'ala militarista. Tra gli organizzatori della Sagra di Napoli, fu nominato Quadrumviro della Marcia su Roma e in tale veste partecipò alla guida della Rivoluzione delle Camicie Nere. A Rivoluzione compiuta divenne Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, e quindi Primo Comandante della MVSN. In tale veste regolarizzò perfettamente lo squadrismo e il volontarismo Fascista costruendo la Quarta Arma dell'Esercito. Travolto dalle conseguenze del delitto Matteotti, dovette dimettersi dai suoi incarichi per essere processato: fu comunque assolto per non luogo a procedere. Nel 1923 divenne Senatore del Regno. Fissata la sua residenza a Tripoli, divenne Governatore della Tripolitania per il triennio 1925-28, per diventare nel 1929 Ministro delle Colonie. In tale veste organizzò con saggezza le forze armate africane e divenne prudente fautore della Guerra d'Etiopia; dal 1935 fu Alto Commissario per l'Africa orientale, ma venne sostituito nel 1936 da Badoglio dopo le prime operazioni, ritenute troppo prudenti, nonostante i successi ottenuti fino a quel momento.
In effetti quando Emilio De Bono sbarcò a Massaua, i preparativi fatti erano assolutamente inadeguati allo scopo di regolare una volta per sempre il conto aperto nel 1896 ad Adua. L'attrezzatura portuale, stradale, economica, militare dell'Eritrea doveva essere moltiplicata per cento e non in un lasso di tempo indefinito, ma in un periodo di tempo brevissimo, precisato e stabilito: l'ottobre del 1935. De Bono rispettò questa data come una consegna sacra e ai primi di ottobre la grande macchina era pronta per scattare. La volontà di De Bono, la sua cinquantennale esperienza, il suo sangue freddo, il suo giovanile ottimismo, furono gli elementi determinanti del successo e il passaggio di consegne a Badoglio fu effettuato con preciso scopo tattico: si ritenne De Bono più esperto nella preparazione, Badoglio nella finalizzazione delle operazioni.
Tornato a Roma fu festeggiato a buon diritto tra gli artefici della proclamazione dell'Impero e divenne Maresciallo d'Italia. Ispettore delle Truppe d'Oltremare nel 1939 e poi comandante delle Armate del Sud, si oppose fermamente all'intervento in guerra, essendogli naturalmente note le condizioni militari Italiane. Il 25 luglio 1943 votò pertanto la sfiducia a Mussolini, deluso dal suo modo di agire, senza pensare minimamente a tradimenti o cambi d'alleanza, ma pensando a un semplice passaggio costituzionale. Il caos che seguì quel voto lo prese completamente alla sprovvista, tanto che l'arresto lo colse ignaro delle motivazioni. La sua deposizione al Processo di Verona ribadì la sua totale estraneità al caos istituzionale avvenuto. Tuttavia fu ugualmente condannato a morte e giustiziato l'11 gennaio 1944, all'età di 78 anni.

 

MICHELE BIANCHI
(1883-1930)

 

Padre del Sindacalismo Fascista, fu Quadrumviro in rappresentanza di tale ala del Fascismo. Organizzatore brillante ed esperto dei lavori pubblici, morì prematuramente, ricordato da tutti come eccellente e zelante Ministro.

Nato il 22 luglio 1883 da Francesco e Caterina a Belmonte Calabro, nel Cosentino, frequentò il liceo a Cosenza, e a Roma si iscrisse alla facoltà di legge. Per dedicarsi all'attività politica, lasciò gli studi e divenne redattore dell'Avanti e dirigente dell'Unione Socialista Romana. Nell'aprile del 1904 partecipò a Bologna al congresso socialista come delegato ed esponente della fazione sindacalista. A metà del 1905, resosi ormai acuto il contrasto tra i sindacalisti e il resto del partito, si dimise dall'Avanti, allora diretto da Ferri, assieme ad altri redattori, motivando la decisione in un articolo sul Divenire Sociale del giugno 1905 che può essere considerato uno dei manifesti fondamentali del sindacalismo italiano.
Il 1° luglio 1905 Michele Bianchi assunse, per qualche mese, la direzione di Gioventù Socialista (organo della Federazione Nazionale Giovanile Socialista) organizzando una vasta campagna antimilitarista. Per tale fatto, fu deferito all'autorità giudiziaria e condannato. Nel dicembre si trasferì a Genova, come segretario della locale Camera del Lavoro, e assunse la direzione di Lotta Socialista. L'acquisizione della nuova carica comportò la creazione a Genova di un'altra Camera del Lavoro da parte dei socialisti antisindacalisti, frutto dell'estrema tensione a cui era ormai pervenuta anche all'interno del movimento operaio locale la lotta di fazione. In questa situazione Bianchi svolse sin dall'inizio un'intensa attività giornalistica ed organizzativa per conquistare alla corrente sindacalista l'egemonia sul proletariato locale, e diresse, per tutto il 1906, numerose agitazioni. Il Bianchi ebbe una parte di qualche rilievo al congresso socialista di Roma dell'ottobre 1906 dove propose un ordine del giorno antimilitarista, nettamente bocciato. Egli denunciò quindi i limiti della politica antimilitarista del partito socialista, rivolta unicamente alla riduzione delle spese improduttive. Come segretario della Camera del Lavoro di Savona, dove si era trasferito, Bianchi diresse numerose lotte rivendicative e di protesta locali, alcune coronate da successo. Ebbe inoltre una parte di rilievo nelle vicende che condussero alla scissione dei sindacalisti dal partito socialista, avvenuta prima al congresso giovanile socialista di Bologna nell'aprile 1907, e poi al primo congresso sindacalista tenuto a Ferrara nel luglio dello stesso anno. A Ferrara si trasferì per qualche mese nel 1907, per riorganizzare le file del movimento sindacale in un vero e proprio Partito Sindacalista, indebolito però dall'arresto di numerosi dirigenti locali in seguito allo sciopero del marzo-giugno nell'Argentario.
Nel maggio del 1910 Michele Bianchi tornò a Ferrara, assumendo la carica di segretario della Camera del Lavoro e la direzione del periodico La Scintilla, che mantenne fino alla metà del 1912. Convinto assertore dell'unità proletaria almeno a livello locale, egli si prodigò a rinsaldarla anche sul piano politico, riuscendo a ricostituire una lista unica tra sindacalisti e socialisti per le elezioni arnministrative del 1910. Nel dicembre del 1910, fu tra i protagonisti del secondo Congresso sindacalista di Bologna con un ordine del giorno contrario alla pregiudiziale antielettorale, che fu respinto perché ritenuto non rispondente al genuino spirito sindacalista. Il Bianchi annunciò allora di voler costituire un nuovo partito, l'Unione Sindacalista Italiana. Ma l'iniziativa del Bianchi non ebbe sviluppo e ciò fu oggetto di un ampio dibattito sulla Scintilla e di un convegno tra numerose organizzazioni economiche del Ferrarese e del Bolognese. Nel 1911 diresse le agitazioni nel Ferrarese per la costituzione degli uffici di collocamento e la revisione dei patti colonici, cercando di frenare le manifestazioni degli scioperanti più scalmanati, suscettibili di rendere più difficile la via dell'accordo, e deferendo infine la composizione della vertenza ad un arbitrato prefettizio.
Alla fine del 1911 il Bianchi poteva fare un bilancio nettamente positivo delle forze aderenti alle sue direttive in quanto l'unità tra le varie tendenze e tra le varie categorie del movimento operaio ferrarese aveva resistito alla prova, portando gli aderenti alla Camera del Lavoro di Ferrara dai l4.000 della fine del 1909 ai 34.000 dell'11. Forte di questo successo, il Bianchi decise la trasformazione della Scintilla da settimanale a quotidiano. Ma l'iniziativa non resse alle difficoltà finanziarie. La pubblicazione quotidiana del giornale durò infatti soltanto dall' aprile all' agosto del 1912. Incriminato per un articolo eccessivamente denigratorio della guerra libica, contro la quale aveva organizzato agitazioni, il Bianchi nell'agosto 1912 riparò a Trieste, allora austriaca, dove entrò a far parte della redazione del Piccolo. Espulso dalla città alla fine dello stesso anno per propoganda filo-italiana, tornò a Ferrara per un'amnistia, e qui diresse la Battaglia, un giornale fondato in vista delle elezioni politiche, alle quali si presentò candidato di un effimero Partito Sindacale, senza successo. Al congresso delle organizzazioni sindacali del Ferrarese, tenuto il 27-28 dicembre del 1913, dopo che i sindacalriformisti avevano deciso di organizzarsi separatamente dai sindacalisti, gli veniva nuovamente offerta la carica di segretario della Camera del Lavoro sindacalista, che però rifiutò. Trasferitosi a Milano, divenne uno dei dirigenti della locale Unione Sindacale, che era aderente all'omonimo organismo nazionale.
Scoppiato il conflitto europeo, il Bianchi si schierò nettamente per l'intervento dell'Italia contro gli Imperi Centrali, e, visto vano ogni tentativo di allineare su questa posizione l'intera Unione Sindacale Italiana, decise di secedere da tale organismo, fondando con la maggior parte degli iscritti milanesi e parmensi, il 5 ottobre 1914, il Fascio Rivoluzionario d'Azione Internazionalista, di cui divenne Segretario, firmando il manifesto detto “appello ai lavoratori d'Italia”. In esso egli invocava l'immediato intervento dell'Italia per rendere più sollecita e decisiva la vittoria dell'Intesa, inaugurando il sindacalismo rivoluzionario interventista. Nel dicembre 1914 il FRAI si trasformò in Fascio d'Azione Rivoluzionaria e il Bianchi fu tra i promotori del congresso nazionale di Milano del 24-26 gennaio 1915, allo scopo di coordinare le iniziative dei vari fasci locali. Partecipò alle agitazioni milanesi del 31 marzo per l'immediato intervento dell'Italia. Fu in tali circostanze che trovò unità d'intenti con Mussolini.
Dichiarata la guerra, riuscì nonostante la malferma salute ad arruolarsi come volontario, col grado di sottufficiale prima nella fanteria e poi nell'artiglieria. Per impedire uno sgretolamento del fronte interventista, causato e dalla carenza delle direttive di governo e dall'azione neutralista, riunì a Milano, il 21-22 maggio, un congresso dei Fasci d'azione rivoluzionaria.
A ostilità concluse, il Bianchi fu per breve tempo Redattore capo del giornale di Mussolini, il Popolo d'Italia, dove per lo più si occupò di questioni sindacali, insistendo sul problema dell'unificazione dei vari organismi esistenti, da realizzarsi al di fuori di ogni tutela dei partiti. Sansepolcrista, come membro del Fascio milanese, fu, durante l'adunata di piazza S. Sepolcro del 23 marzo 1919, nominato membro del comitato centrale dei Fasci di combattimento. Ai primi di ottobre fu inviato da Mussolini a Fiume, per dissuadere D'Annunzio dal proposito di intraprendere una marcia all'interno del paese. Fu in questa occasione che D'Annunzio autorizzò Mussolini, attraverso il Bianchi, a utilizzare per la campagna elettorale Fascista parte dei fondi raccolti per Fiume.
Si preparava intanto la trasformazione del movimento Fascista in partito, e il Bianchi vi collaborò attivamente. Nell'agosto 1921 partecipò all'istituzione della scuola di propaganda e cultura Fascista, e vi tenne la conferenza inaugurale. Costituitosi il Partito Nazionale Fascista nel novembre 1921, il Bianchi fu eletto membro del comitato centrale, e quindi, come uomo di fiducia di Mussolini, Segretario Generale e membro della commissione incaricata di elaborare il programma-statuto del partito.
Al Bianchi furono affiancati quattro vice segretari, A. Starace, P. Teruzzi, A. Bastianini e A. Marinelli costituendo in tal modo l'unione di tutte le correnti del partito, di cui Bianchi costituiva l'ala sindacalista. Tra i membri della segreteria si sarebbe così costituita ben presto una fitta rete di collaborazione che avrebbe portato il Fascismo al trionfo.
L'attività del Bianchi come dirigente del Partito è anche contraddistinta, in questo periodo, da una sottile politica mediatrice, tale da permettergli di sottoporre le manifestazioni periferiche dello squadrismo a un più severo controllo del centro, costituendo un ispettorato centrale delle squadre di combattimento. Nella primavera-estate del 1922 lo scatenarsi dell'offensiva squadrista in tutto il Regno trovò il Bianchi in prima linea: così il 29 maggio, in occasione delle manifestazioni Fasciste bolognesi contro il Prefetto, ordinava il passaggio dei poteri dai direttori dei Fasci locali ai Comitati d'azione e annunciava il proprio trasferimento a Bologna. Proclamato dall'Alleanza del lavoro lo sciopero legalitario per il 1° agosto, il Bianchi inviava a tutte le federazioni una circolare con la quale ordinava la mobilitazione delle squadre e la loro entrata in azione se lo sciopero non fosse cessato entro quarantotto ore, informando inoltre di persona il governo e il Re circa i propositi Fascisti.
Alle riunioni del comitato centrale, della direzione, del gruppo parlamentare Fascista e della presidenza della Confederazione delle corporazioni del 13 agosto, il Bianchi prospettava l'alternativa tra ascesa al potere con nuove elezioni o per la via rivoluzionaria, dichiarandosi, con Balbo e Farinacci, favorevole all'ultima soluzione. Decisa la Rivoluzione, il Bianchi svolse un compito di primo piano nella preparazione della Marcia su Roma. Da una parte, fu sua cura organizzare più saldamente il partito e allargarne l'influenza anche nelle regioni meridionali; dall'altra, funzionò da spalla di Mussolini nei contatti con le varie forze politiche, compresi gli esponenti del governo Facta. Nominato, in quanto Segretario del partito e rappresentante dell'ala sindacale, membro del Quadrunvirato con De Vecchi, De Bono e Balbo, partecipò il 24 ottobre alla riunione dell'albergo Vesuvio di Napoli, dove vennero concordate le ultime misure (la sagra di Napoli). Tornato a Roma si adoperò, di concerto col Re, affinché fossero sventate manovre parlamentari, e per dirimere le ultime incertezze da parte Fascista. La Rivoluzione fu così un trionfo.
Mussolini, incaricato di formare il nuovo governo, suscitò subito l'accesa protesta del Bianchi contro l'eccessiva larghezza della coalizione, essendo in particolare contro i Popolari. Presentò perciò le dimissioni da Segretario del partito, che non furono accettate. Il 4 novembre Bianchi assumeva la carica di Segretario Generale al Ministero degli Interni, lasciando quindi la segreteria del partito, che venne divisa in due e diminuita d'importanza: una politica (Bastianini e Sansanelli) e un'altra amministrativa (Marinelli e Dudan) con direzione di Sansanelli.
Come membro del Gran Consiglio del Fascismo, Bianchi fece parte di una commissione incaricata di elaborare la nuova legge elettorale, il cui progetto fu presentato e approvato il 25 aprile dal Gran Consiglio stesso. Sempre nell'ambito del Gran Consiglio il Bianchi fece anche parte di una commissione incaricata di dettare norme precise per una maggiore valorizzazione delle forze sindacali e tecniche del Fascismo. Bianchi fece parte quindi della cosiddetta pentarchia, incaricata di redigere il listone per le elezioni politiche dell'aprile 1924, nelle quali fu eletto Deputato per la circoscrizione calabro-lucana.
Il 14 maggio rassegnò le dimissioni dalla carica di Segretario generale del ministero degli Interni per incompatibilità con quella di Deputato. Contemporaneamente, in qualità di membro della commissione incaricata di elaborare la riforma del regolamento della Camera, presentò un progetto che prevedeva, tra l'altro, una procedura abbreviata per le discussioni parlamentari, allo scopo evidente di restringere le funzioni del Parlamento. Il 3 giugno, in risposta al discorso della Corona, volto a stemperare le tensioni, si fece portavoce presso il Re della volontà normalizzatrice del governo.
Il 31 ottobre 1925 fu nominato alla carica di Sottosegretario di Stato ai Lavori pubblici con compiti specifici per le regioni sottosviluppate, rivolgendo gran parte della propria attività al potenziamento economico della natia Calabria, ottenendo strepitosi risultati. Trasferito il 13 marzo 1928 al Sottosegretariato deI Ministero dell'Interno, partecipò all'attuazione già in corso dell'ordinamento podestarile, alla riforma dello stato giuridico dei segretari comunali, al riordinamento dell'organismo della Provincia, al rinvigorimento della politica sanitaria ed assistenziale. Il 12 settembre 1929 il Bianchi (che era stato rieletto Deputato), venne elevato alla carica di Ministro dei Lavori Pubblici, dove mise a disposizione della Nazione le sue esperienze calabresi.
Ma, contemporaneamente, le sue condizioni di salute, già da tempo precarie per una grave malattia, peggiorarono irrimediabilmente portandolo alla morte prematura, a Roma il 3 Febbraio 1930.
Il Bianchi è ricordato ancor oggi come grande politico soprattutto in Calabria, dove vi sono vie e piazze a lui dedicate, nonché busti e monumenti. Tra questi si annovera una stele posta su un poggio, presso il suo paese natio Belmonte Calabro, visibile percorrendo l'autostrada A3. In essa si ricorda il suo impegno per la Calabria e per tutti i lavoratori, gli umili e i diseredati italiani.

 

NICOLINO BOMBACCI
(1879-1945)

 

Come poter cominciare una storia su Nicola Bombacci, come poter introdurre e spiegare in un breve articolo la vita così intensa ed appassionata del più anomalo stretto collaboratore di Mussolini durante quei giorni goliardici della RSI?

Pochi di voi avranno mai sentito nominare il suo nome, nessuno, fuori dalla destra sociale ha la benché minima idea di chi sia questo personaggio. La risposta è che sono state gettate su di lui non solo le poche spanne di terra con le quali venne ricoperto il suo corpo straziato dopo l’infamia di Piazzale Loreto, ma egli fu condannato alla Damnatio memoriae da parte di tutto il mondo comunista e della sinistra in generale, in quanto egli è estremamente imbarazzante per quel mondo, e non solo. La sua figura e la sua storia sono la prova lampante che l’unico socialismo mai realizzato in Italia porti la firma di Benito Mussolini.


Quando gli uomini del così chiamato "Colonnello Valerio" consegnarono alla stampa l’elenco dei morti esposti a Piazzale Loreto, nell’ultima riga spuntava il nome del più sconosciuto fra i poveri corpi che subirono quello strazio, ossia Nicola Bombacci- SUPERTRADITORE.
Cosa poteva aver mai fatto per meritarsi tale titolo, per meritarsi il silenzio, l’oblio del mondo politico tutto?

Nicola Bombacci era nato il 29 Ottobre 1879 a Civitella di Romagna, vicinissimo a Predappio, da una famiglia di coltivatori molto legati alla dottrina cattolica. Nicola crebbe in un ambiente perciò molto religioso, frequentò la scuola della parrocchia , e nel 1895, andò in seminario. Lasciò quella scuola nel 1900 e non rinnegò mai, nel suo cuore, gli insegnamenti cristiani di carità ai poveri e di servire gli oppressi, anche quando, da leader social-comunista faceva il mangiapreti e sfidava apertamente Dio e la chiesa. Nel 1903, ancora studente, si iscrisse al partito socialista, e diventò un convinto attivista , la sua abile retorica e la sua foga gli fecero strada nel campo politico aprendogli le strade per le più alte cariche di partito. Da notare sono le coincidenze che uniscono in modo così stretto Mussolini e Bombacci, così diversi, ma molto simili. Entrambi romagnoli, entrambi socialisti, entrambi maestri elementari, l’uno fondatore del partito fascista, l’altro del partito comunista, l’uno donnaiolo, l’altro monogamo, l’uno rissoso e cercaguai, l’altro timido e diplomatico. Due nemici amici, che, anche nei giorni dello squadrismo e durante il ventennio non smisero mai di provare profonda simpatia l’uno per l’altro. E durante i giorni della RSI tornarono assieme, come ai vecchi tempi, in nome di una socializzazione che si sarebbe potuta realizzare solo ora, solo ora che il fascismo si era depurato dalle plutocrazie monarchiche e borghesi che avevano cercato di sopprimere i grandi ideali sansepolcristi del ’19.
Come abbiamo già detto Nicola Bombacci divenne una vera personalità nel mondo socialista romagnolo ed emiliano in seguito , fu a capo della sezione di Modena del partito socialista negli anni 1914-1915. Divenne rappresentante della corrente rivoluzionaria del PSI , che si opponeva ai moderati guidati da Turati , appoggiò le rivolte dei braccianti contro i mezzadri e, dopo la rivoluzione russa, come guida della delegazione italiana in unione sovietica in occasione dell’Internazionale, come membro del Comintern, e conoscente personale di Lenin, divenne l’”UOMO DI MOSCA”, il fidato fiduciario della Russia bolscevica in Italia. Nel 1921 assieme a Gramsci, fu fautore della scissione dal PSI da cui nacque in PC D’I, Partito Comunista d’Italia. Ma ormai, la fiducia di Mosca nei suoi confronti cominciò a diminuire, la sua influenza nel mondo politico italiano a spegnersi. Lenin stesso gli rimproverò : ”In Italia c’era un solo uomo capace di compiere la rivoluzione, Mussolini, e voi ve lo siete lasciati scappare”. Bombacci si rese conto ben presto che il partito comunista era una cloaca di intellettuali e filosofi che nulla sarebbero stati capaci di compiere.
Egli era il nemico numero uno degli squadristi del ‘20 e ’21, uno stornello dell’epoca diceva “ Me ne frego di Bombacci e del sol dell’avvenir, con la barba di Bombacci faremo spazzolini, per lucidar le scarpe a Benito Mussolini”; con forte derisione della lunga barba biondo scuro che teneva Nicola Bombacci.
Nicola era un comunista anomalo, e la sua rottura morale con il partito la si ebbe nel suo discorso al parlamento del 30 Novembre 1923, giorno in cui si discusse l’apertura dei commerci italiani con l’URSS. Bombacci parlò a nome della Russia in favore di questo patto, fece un discorso pieno di patriottismo verso l’Italia e parlò persino di “Unire le due rivoluzioni, quella bolscevica e quella fascista, entrambe antiborghesi, per una comune lotta contro le plutocrazie capitaliste”. Alla fine del suo discorso il deputato fascista Giunta gridò : ”Onorevole Bombacci, c’è una tessera fascista pronta per lei”.
Ciò che allontanò definitivamente Bombacci dal comunismo filosovietico, fu la svolta stalinista presa dopo i funerali di Lenin, a cui egli stesso partecipò. Dopo l’allontanamento dal comunismo anche in Italia, cadde in miseria. Era povero, realmente, era comunista, tenuto d’occhio dalle autorità, come “Elemento sovversivo”. Si sa che Mussolini intervenne sempre, in segreto, affinché non gli venisse torto un capello, durante gli anni dal 24 al 42. Anzi, nel 1930 si sa che Bombacci scrisse una lettera al Duce in cui gli spiegava la sua miseria. Mussolini gli procurò il lavoro, come responsabile dell’importazione di prodotti agricoli e del grano dalla Russia, risollevando le sue condizioni economiche. Nel 1936 gli permise persino di pubblicare una rivista, la “Verità”, di stampo chiaramente comunista, che ebbe un alto successo. Questo per coloro che vanno predicando la “Terribile persecuzione contro la libertà di stampa perpetuata dai fascisti”. Nicola Bombacci si avvicinò sempre di più al fascismo anche se non arrivò mai a definirsi tale.
L’8 Settembre 1943 Bombacci era a Roma e visse le tribolazioni nell’ombra, scrutando gli avvenimenti con attenzione. Quando sentì Il suo amico Mussolini parlare di “Repubblica SOCIALE italiana “ ebbe un moto nell’animo che lo spinse al nord, vicino al suo amico, nella ricerca di quella repubblica socialista che aveva tanto sognato.L’ arrivo di Bombacci come collaboratore giunse a Mussolini come una pioggia fresca dopo mesi passati nel deserto.
Passavano serate assieme passeggiando sulle rive del lago, Bombacci girava per le città parlando ai lavoratori, infiammando le piazze, chiamandoli con una parola che era stata tabù per vent’anni ”Cari compagni, a cui aggiungeva un Cari camerati”. I lavoratori lo amavano, anche se sia lui che loro sapevano che ormai era troppo tardi. Catturava la simpatia dei fascisti salendo sul palco fischiettando “Me ne frego di Bombaci e del sol dell’avvenir” : “Eccomi quà”.
Nicola Bombacci fu il fautore, assieme a Mussolini e a Angelo Tarchi, della legge sulla socializzazione , approvata il 12 Febbraio 1944. Questa legge rivoluzionava l’intero sistema borghese dell’epoca. Conteneva norme sulla statalizzazione di molte grandi aziende, norme sulla nomina del sindacato, l’assegnazione degli utili ai lavoratori ecc. Ai tedeschi questa norma non piacque affatto, ma al momento avevano altro a cui pensare. I fronti stavano retrocedendo pericolosamente verso i confini della Germania, e poi vi era il problema della deportazione degli ebrei, enormemente frenata in Italia grazie alla RSI.
Si sa che la massa ormai era arrabbiata con i fascisti. Gli operai ormai erano già stati indottrinati da un anno dai membri del CLN, e purchè applaudissero Bombacci, quando votavano alle urne per eleggere i rappresentanti del consiglio di gestione aziendale, venivano eletti Greta Garbo o Henry Ford.
Si giunse infine al fatidico Aprile 1945. Verso sera, nel cortile della prefettura di Milano vi è un gran fuggi fuggi. Uomini si tolgono le divise e si vestono in borghese, molti documenti vengono bruciati.
La macchina con Mussolini era già pronta, Nicola voleva seguirlo fino in fondo. Il piano era di raggiungere Como, e poi la Svizzera o il Brennero. Probabilmente anche loro sapevano che non sarebbe stato possibile. Nicola Bombacci salutò con cordialità e con il suo solito umorismo romagnolo Vittorio Mussolini, e gli altri, mostrando una serenità che, in quella situazione, dava coraggio.
La presenza di Mussolini e Bombacci nella colonna tedesca fu poi scoperta a Dongo grazie al tradimento dei crucchi che rivelarono tutto in cambio della possibilità di proseguire il viaggio verso casa. Oltre a Bombacci e Mussolini furono arrestati Barracu, Zerbino, Pavolini, Casalinovo, Utimpergher e altri. Pavolini sapeva di non avere speranze di vita. Egli era il capo delle brigate nere, il corpo che più duramente contrastò la guerriglia partigiana e che inflisse le più dure perdite alle brigate Garibaldi. Gli altri fra cui Bombacci, avevano speranza di vita, in fondo non avevano fatto nulla in particolare. Eppure la sentenza di morte arrivò indiscriminatamente per tutti.
Furono fucilati a Dongo, sul lungolago. Anche prima della fucilazione, Bombacci continuò a fare battute di spirito, e quando le decine di colpi di mitra gli vennero scaricate addosso, prima di morire gridò “Viva Mussolini, viva il socialismo”.
Questa fu la vita del supertraditore. Quest’ uomo rappresenta per tutta la destra sociale e proletaria quella terza via che a lungo siamo andati cercando, e che potremmo trovare, forse, guardando con occhi sinceri e cuore onesto la vita di quel maestro elementare romagnolo la cui esistenza ed esecuzione sono prove lampanti che si può uscire dagli schemi, che esiste un’altra strada, fra il marxismo, il liberalismo e le varie dottrine affariste del centro. Basta porsi con fede di fronte ai sentimenti del proprio cuore, per vederla, e per cercare di inseguirla. Lui ha pagato con la morte questa scelta, facciamo in modo che il suo sacrificio non sia stato vano.

 

CESARE MARIA DE VECCHI
di Valcismon
(1884-1959)

 
La presente biografia (ed il certificato militare attestante quanto sotto riportato) è stata fornita, rivista e corretta da Paolo De Vecchi nipote del Quadrumviro di Mussolini. La redazione sentitamente ringrazia.

Il Quadrumviro Aristocratico e Cattolico. Governatore di ferro nelle Colonie e grande uomo d’azione; rimarrà sempre legatissimo alla Chiesa, che lo proteggerà nell’ora del periglio.

Cesare Maria De Vecchi nacque il 14 novembre 1884 a Casale Monferrato, in Provincia di Alessandria. Il padre Luigi è un notaio; la madre si chiama Teodolinda Buzzoni. Dopo aver frequentato il Liceo, si laurea in Giurisprudenza(1906) e, poco dopo, in Lettere e Filosofia (1908). Nel 1907 si sposa con Onorina Buggino e intraprende la professione di avvocato, ponendo la sua residenza a Novara sino al 1910 e quindi a Torino dove rileva uno studio di avvocato. Allo scoppio della Grande Guerra nel 1914 decide di far valere il proprio diritto di diventare ufficiale che aveva acquisito nel 1904 surrogando il fratello Giovanni nel servizio militare e quale volontario di un anno diventando sergente il 24 Marzo 1905 nel 1o Reggimento Artiglieria da Fortezza. Combatte per tutto il quadriennio, ottenendo tre medaglie d’argento, due medaglie di bronzo e altre onorificenze minori e congedato definitivamente il 5 Marzo 1919 con il grado di Capitano.
Nel dopoguerra si lega a Mussolini, aderisce ai Fasci di combattimento (1919). Contribuisce in modo determinante alla strutturazione dell’apparato ideologico e sociale del PNF, teorizzando quell’unione di tutti i ceti e le istanze nazionali (appunto i fasci) per il bene supremo della Patria. Nel 1921 è, con Balbo e De Bono, Comandante Generale della Milizia; vivace organizzatore dello squadrismo piemontese, alla vigilia della Marcia su Roma viene nominato Quadrumviro della Marcia su Roma.
Col trionfo della Rivoluzione è subito membro del Gran Consiglio del Fascismo e partecipa al primo Governo Mussolini quale Sottosegretario per l'Assistenza militare e le pensioni di guerra e dall’8 marzo del 1923 quale Sottosegretario alle Finanze.
Il 3 maggio del 1923 si dimette da sottosegretario per contrasti con Mussolini e alla fine del 1923 viene nominato Governatore della Somalia e in quella posizione vi rimane per il periodo 1923-1928. Il 15 Ottobre 1925 diventa altresì Senatore del Regno. Durante il suo mandato coloniale amministra con mano ferma la Somalia, ponendo in atto notevoli operazioni di polizia, che fruttano tra l’altro l’annessione dei Protettorati Sultanali di Obbia e Migiurtinia. La sua durezza viene talora criticata, ma alle proteste rispose già nel suo “saluto ai Somali”: “Io sono il rappresentante del grande capo Mussolini e sono qui per eseguire i suoi ordini. So governare, perché ho governato e ho la mano dura. Non voglio commenti. Ciò che faccio, faccio bene. Questa Colonia non è che una tappa delle vie Imperiali che l’Italia si prepara a raggiungere”. Oltre all’azione militare, De Vecchi si impegna per la promozione e la crescita dell’agricoltura locale, in particolare col potenziamento della stazione agricola sperimentale di Genale e la messa a cultura di oltre 20000 ettari divisi in numerose concessioni. Grazie a questa attività si assiste ad un grande incremento della produzione cotone, della canna da zucchero, di banane. Per sfruttare al massimo la vocazione agricola della Somalia si iniziano ad impiegare tecniche moderne di aridocoltura che permettono di sottrarre terre alla desertificazione.
Allo scadere del suo mandato in Colonia, nel 1928, Presidente della Cassa di Risparmio di Torino carica che lascerà nel 1929 con la sua nomina ad Ambasciatore d’Italia presso il Vaticano. Egli ricopre la carica fino al 1935, anno in cui, alla vigilia del conflitto con l'Etiopia, è nominato ministro dell'Educazione Nazionale (24 gennaio 1935-15 novembre 1936), con il preciso mandato di perfezionare la fascistizzazione della scuola e dell'università, affinché marcino compatte con le falangi del Regime. Tra i provvedimenti presi in questo periodo vi è l’eccellente riorganizzazione della Gioventù Universitaria Fascista (GUF), dei Littoriali, delle manifestazioni studentesche. Tra le attività parlamentari di cui De Vecchi si occupa da segnalare altresì il lavoro per la determinazione degli enti che propongono i candidati alle elezioni politiche (1932), nonché quello per il perfezionamento del sistema corporativo (1934).
All’attività politica unisce quella culturale, divenendo Presidente dell'Istituto per la Storia del Risorgimento (agosto 1933) e Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei (6 maggio 1935-4 gennaio 1946). Alla fine del 1936 diviene Governatore delle Isole Italiane dell’Egeo (Dodecaneso) carica che manterrà fino al 1940. In tale veste si occupa della promozione della cultura Italiana nelle isole, finanziando scuole e opere pubbliche, ma suscitando l’ira degli esponenti panellenici. Nel corso del suo mandato di Governatore riorganizza la difesa del Possedimento e alla fine del 1940 si dimette da Governatore per le divergenze di vedute sulla condotta della guerra sia con Mussolini che con gli alti comandi militari. Rimane senza incarichi sino al 20 Luglio 1943 quando viene nominato comandate della 215a Divisione Costiera schierata in Toscana. Decide di votare a favore dell’ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943. Dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943 la sua Divisione ha scontri di notevole portata con le forze tedesche. Costretto a deporre le armi per ordini superiori, si reca a Torino, rifiutando di riconoscere la RSI. Nei primi giorni del mese di Ottobre 1943 si da alla macchia per evitare l’arresto da parte di membri della neonata rsi e viene aiutato dai salesiani riconoscenti per quanto lui aveva fatto per la santificazione del Fondatore e per le opere sue in giro per il mondo. Viene nascono in varie strutture tra Piemonte e Valle d’aosta e dopo la guerra a Roma. Rinviato a giudizio anche dal Regno d’Italia diventata poi Repubblica Italiana, con un passaporto paraguagio si trasferisce in Argentina (15 Giugno 1947). Decide di rientrare in Italia nel giugno 1949 solo dopo che la Cassazione ha confermato la sentenza del 1947 che lo assolveva per tutti i capi d’accusa e lo condannava a 5 anni (con applicazione dell’amnistia) per la parte avuta nella Marcia su Roma e si stabilisce a Roma, dove, fortemente debilitato per la ormai malferma salute, si ritira a vita privata. Muore il 23 giugno 1959 nella Capitale all’età di 74 anni e mezzo.

 

ROBERTO FARINACCI
(1892-1945)

 

Il Fascista “selvaggio”, capace di eroismi come di grotteschi fanatismi; di azioni lodevoli come di azioni sciagurate. Curiosamente formatosi nella socialdemocrazia di Bissolati, divenne l'intransigente ammiratore del nazionalsocialismo tedesco, contribuendo gravemente al triste tramonto del Regime.

Roberto Farinacci nacque ad Isernia il 16 ottobre del 1892, da famiglia d’origine campana. Il padre, Commissario di Pubblica Sicurezza, venne nel 1900 trasferito nel nord: tutta la famiglia si spostò dapprima momentaneamente a Tortona, nell’Alessandrino, e quindi in via definitiva a Cremona. Il giovane Farinacci lasciò presto la scuola per cercare un lavoro, che trovò all'età di 17 anni, nel 1909, come dipendente delle ferrovie di Cremona, con la mansione di telegrafista ferroviario; il lavoro gli piacque assai, tanto che volle continuare a svolgerlo fino al 1921, quando già aveva iniziato una vivace carriera politico-giornalistica. Negli anni ’10 inizia a seguire le vicende politiche nazionali, interessandosi in particolare al Partito Socialista. Si avvicina così al concittadino cremonese Bissolati, che, espulso dal PSI con Bonomi in seguito al congresso di Reggio Emilia del 1912 (al quale aveva avuto successo Mussolini), aveva dato vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI), divenendo antesignano della socialdemocrazia dei futuri Partito Socialista Unitario (PSU) e Partito SocialDemocratico Italiano (PSDI). Chiamato come collaboratore al giornale di Bissolati “L'Eco del popolo”, si segnala con articoli di un certo rilievo a favore della Guerra di Libia. Sotto la spinta del suo mentore si lega alla massoneria del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani. Nel frattempo, ripresi gli studi, riesce a conseguire brillantemente la licenza liceale e si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza di Modena, dove si laureerà, per cause belliche solo nel 1923 in una sessione speciale per ex combattenti, con il celebre giurista Prof. Alessandro Groppali.
Occupatosi della riorganizzazione del sindacato contadino socialista, inizia a mostrare insofferenza nei confronti dei socialisti riformisti e a collaborare volontariamente con “Il Popolo d'Italia” di Benito Mussolini. Allo scoppio della Grande Guerra si dichiara interventista, contrariamente alla maggior parte dei compagni riformisti, ma non di Bissolati, dichiaratosi anch’egli per l’intervento. La rottura con i socialdemocratici è però vicina e si consuma definitivamente dopo un discorso violentemente anti-irredentista che il vecchio Bissolati tenne, tra le proteste, a Milano. Col 24 Maggio del ’15 parte volontario e partecipa per alcuni mesi ai combattimenti, animando dal fronte il settimanale cremonese “La Squilla”. Ottiene tra l’altro una croce al merito.
Con la Vittoria, rotto ogni legame col gruppo socialista riformista di Bissolati e con la massoneria, diventa seguace di Benito Mussolini e con lui fonda nel 1919 i Fasci di Combattimento; l’11 aprile dello stesso anno fonda il Fascio di combattimento di Cremona, cui da una connotazione intransigente, imperiosa e poco diplomatica, tollerando, se non addirittura incoraggiando, la veemenza squadrista. Lo squadrismo, del resto, ben si addiceva al carattere sanguigno di Farinacci, che interpretava la politica in modo “molto fisico e poco spirituale”. Fu così che la sua figura venne sempre più identificata, tanto dai Fascisti quanto dagli oppositori, come “l’inurbano fornitore di manganelli e olio di ricino”. I suoi modi in effetti erano sempre molto schietti: nelle sue lettere arrivava addirittura ad offendere e minacciare lo stesso Duce!
Nel 1921 viene eletto Deputato a soli 29 anni: l’elezione viene così annullata per la giovane età. Nello stesso anno è con Dino Grandi e Italo Balbo nella ferma opposizione al cosiddetto patto di pacificazione con i socialisti promosso da Mussolini allo scopo di stemperare gli animi. Intanto opera instancabilmente, insieme ad Achille Starace, per una massiccia campagna di propaganda Fascista in diverse regioni Italiane, tra cui la Venezia Tridentina. Con l’approssimarsi della Rivoluzione diviene Console Generale della Milizia. Nel 1922 è tra gli organizzatori della Marcia su Roma e prova a rinviare la seconda scelta pacificatrice e normalizzatrice di Mussolini, sollecitata dalla Corona, in nome di una “seconda ondata di forza” del Fascismo. Tenta pertanto di ostacolare la manovra, ed anzi contesta la stessa creazione della Milizia, nella quale sarebbero dovuti confluire anche i "suoi" squadristi: Mussolini gli inviò allora il Quadrumviro Emilio De Bono che, con in mano un mandato di cattura a lui intestato, seppe essere molto persuasivo.
Era nel frattempo divenuto Direttore del quotidiano Cremona nuova, che nel 1929 diverrà Il Regime Fascista ed è Segretario del Fascio locale sino al 1929. Dal carattere energico e permaloso, affronta in questo periodi diversi duelli, tra cui il più faticoso risulta quello del 28 settembre 1924 col Principe Valerio Pignatelli, in cui patisce una ferita seria.
E’ lui ad assumere la difesa in giudizio di Amerigo Dumini nel processo per l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti, ottenendone l’assoluzione. Membro del Gran consiglio del Fascismo, nel febbraio 1925 diviene Segretario Generale del Partito Nazionale Fascista ma resta in carica solo 13 mesi a causa di notevoli divergenze con Mussolini e il Governo, anche riguardo alle funzioni della sua carica. I suoi modi riuscirono anche a provocare uno stallo di diversi mesi nel lavoro diplomatico che il Regime stava intessendo con la Chiesa, che sarebbe stato coronato dal Concordato del 1929.
Alla fine degli anni venti è al centro di una tumultuosa vicenda giudiziaria, denunciando, tramite l’ex Federale di Milano Carlo Maria Maggi, poi espulso dal partito, un presunto intrigo politico, con risvolti economici, perpetrato nel milanese dal Podestà Ernesto Belloni, dimessosi nel 1928 e dal Federale Mario Giampaoli, implicato nel gioco d’azzardo. Farinacci arriva ad accusare Giampaoli di tentato omicidio nei suoi confronti: il Giampaoli viene espulso dal partito nonché citato in giudizio e condannato in base a prove schiaccianti nel 1930.
Dopo tale esperienza si isolò per qualche anno dalla vita politica, dedicandosi alla professione forense e giornalistica raggiungendo grandi risultati: si consideri che il suo giornale “Il Regime Fascista”, a diffusione limitata all'Italia settentrionale, arrivò a vendere più copie del stesso “Popolo d'Italia”. Dalle colonne del suo quotidiano non lesinò attacchi ad alcuno; memorabile resta il suo violento attacco ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce e organizzatore delle Battaglie del Grano e del Rimboschimento, accusato, in modo dimostratosi poi del tutto infondato, di aver ricevuto finanziamenti occulti.
Reintegrato nel 1935 nel Gran Consiglio del Fascismo, allo scoppio della Guerra d’Etiopia parte volontario nella Milizia e si segnala per incontenibile audacia ed ardimento. In guerra “il selvaggio Farinacci”, com'era affettuosamente chiamato dai suoi fedelissimi, si ritrovò con i bombardieri di Galeazzo Ciano, nuovamente insieme a Starace. Conquistò sul campo il grado di Generale. Rimase mutilato perdendo la mano destra in un banale incidente di campo. Rimpatriato, devolse in beneficienza il vitalizio spettantegli. L'esperienza africana gli valse una rivalutazione soprattutto sotto il profilo militare. Dopo il ritorno trionfale è tra i sostenitori dell’intervento armato per dirimere la questione spagnola nonché della politica di costante avvicinamento alla Germania nazionalsocialista. Inviato come osservatore militare in Spagna durante la guerra civile spagnola inviò importanti e lucide relazioni militari. Ammiratore del nazismo e di Hitler preme per l’introduzione delle leggi razziali in Italia e per una svolta razzista e antisemita del Governo. Strinse stretta amicizia con alcuni gerarchi del nazismo, come Goebbels, avvicinandosi sempre più alle posizioni della dittatura tedesca. Nel 1939 il Re lo nomina Ministro di Stato e Alto Dignitario della Corona. Contemporaneamente istituisce il “Premio Cremona”, destinato a tutti gli artisti Italiani. Scoppiata la guerra, Farinacci si fa strenuo sostenitore, presso il Re e presso il Governo, dell’assoluta necessità dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania. Violentemente contrario alla non belligeranza del 1939, accese una infuocata polemica dalle colonne del suo giornale, talché si dovette spegnere con sequestri, controlli di polizia e faticosissimi richiami all'ordine. Quando poi, nel 1940, la guerra fu alfine dichiarata, Farinacci si diede al minuzioso controllo di potenziali traditori, doppiogiochisti e spie, rasentando sovente il grottesco.
Considerato ormai anche dal Duce un fanatico, fu inviato nel 1941 in Albania quale ispettore governativo delle operazioni belliche. Qui criticò violentemente Badoglio, provocandene l’ira e le dimissioni da Capo di Stato Maggiore.
Tornato in Patria fu allontanato dalla vita pubblica. Informato del possibile cambio di Governo già nel giugno del 1943 forse dallo stesso Grandi, decise di discuterne col Re, col Duce e financo con Hitler, affinché si trovasse una soluzione; tuttavia nessuno dei tre gli diede udienza. Il 25 luglio 1943 criticò l’ordine del giorno Grandi e presentò una sua mozione, votata solo da lui stesso, dal contenuto piuttosto confuso. In essa si chiedeva al Re di attuare una netta “svolta filo-tedesca”, anche con un nuovo Presidente del Consiglio. La stessa sera si rifugia nell'ambasciata tedesca ed il giorno successivo si trasferisce a Monaco.
Torna a Cremona il 22 Settembre 1943, tentando di riprendere il controllo del suo giornale. Mal sopportando l’ingerenza tedesca, si ribella apertamente a questi; viene perciò allontanato e privato di ogni carica e durante la R.S.I. è completamente estromesso dalla vita politica. Insediatosi a Milano presso la Marchesa Medici del Vascello, forse l’unica donna di rilievo della sua vita, il 27 aprile 1945 decide di allontanarsi verso la Valtellina. Episodio curioso narrato da testimoni oculari, Farinacci chiede all’autista di sedersi dietro e di far guidare lui, benché privo di una mano; a Beverate, frazione di Brivio, trovatosi innanzi a un posto di blocco partigiano, decide di sfondarlo a tutta velocità, ma l'auto viene fermata da una raffica di mitra: l’autista muore sul colpo, la Marchesa Medici viene ferita mortalmente (morirà dieci giorni dopo in ospedale), Farinacci, ironia della sorte, si salva miracolosamente. Il mattino del giorno dopo, 28 aprile 1945, dopo aver passato la notte in una villa di Merate, subisce un processo sommario partigiano e viene fucilato barbaramente presso il municipio di Vimercate, nel Milanese.

 

DINO GRANDI
di Mordano
(1895-1988)

 

Uno degli uomini più importanti e controversi del secolo XX: costruttore e organizzatore del Fascismo, arteficie del prestigio Italiano all’estero e del rinnovamento dei codici giuridici Italiani, eroe di guerra, ma primo responsabile del cosiddetto tradimento del ’43. Odiato nel dopoguerra tanto dai rossi quanto dai reduci Repubblichini, trascurato dalla storiografia ufficiale, ebbe in realtà una vita oggettivamente non comune, lunghissima, ricca di avvenimenti, costellata sia di successi che di insuccessi.


Dino Grandi nacque il 4 giugno 1895 a Mordano, in Provincia di Bologna, da una famiglia schiettamente contadina. Il padre amministratore di una grande tenuta, era un ex seminarista divenuto nel tempo anticlericale e liberalmonarchico di stampo risorgimentale; tra le amicizie del padre si annoverava il famoso Andrea Costa, primo socialista ad entrare in Parlamento. Nonostante l'anticlericalismo paterno, Dino Grandi si avvicinò giovanissimo alle strutture ecclesiastiche diventando assiduo frequentatore della parrocchia. Da giovinetto si recò a Ferrara per frequentare il liceo. Quivi conobbe e si entusiasmò degli scritti di D'Annunzio e Marinetti; le sue letture preferite erano Croce e Nietzsche; con la sua educazione religiosa si avvicinò agli ideali del socialismo cristiano di Murri. Finito il liceo nel 1913, indeciso inizialmente tra le facoltà di medicina e di lettere, si risolve alfine per giurisprudenza, a Bologna. Voce principale dell'interventismo rivoluzionario universitario bolognese, il diciannovenne Grandi inizia una intensa attività giornalistica entrando nella redazione del Resto del Carlino, su richiesta di Nello Quilici, amico di Italo Balbo. Il Quilici lo apprezza tanto che lo chiama a Roma come giornalista parlamentare.
Nella capitale è il periodo dei grandi fermenti politici, che affascinano il ventenne Grandi, il quale, rientrato a Ferrara nel 1915, pronuncia un memorabile discorso interventista davanti al monumento di Garibaldi, indossando una camicia rossa garibaldina, e invocando la “guerra di redenzione”. Anche lui come tanti socialisti rivoluzionari, crede che la guerra porterà finalmente alla vera Rivoluzione antiliberale. Conosce per la prima volta Mussolini e come lui parte volontario, lasciando gli studi, arruolandosi nello stesso corpo alpino di Balbo. In guerra dimostra un notevole eroismo e le sue gesta lo portano alla promozione sul campo a capitano ed al conferimento di una medaglia d'argento e due croci di guerra. Dopo la Vittoria si congeda e si trasferisce ad Imola riprendendo gli studi.
Ripresa l'attività politica come socialista rivoluzionario (1918-19), rimane scontento del disfattismo del partito socialista e si risolve di unirsi a Mussolini nella fondazione dei Fasci di Combattimento (1919). Nel frattempo termina i suoi studi con la laurea in legge con una tesi in economia politica, “La Società delle Nazioni e il libero scambio”. Mussolini ne comprende l'abilità organizzativa e lo nomina organizzatore dello squadrismo bolognese. La sua guida porta a questo squadrismo una connotazione agraria marcatamente antisocialista. La sua azione si rivolge soprattutto contro le Camere del Lavoro, accusate di essere la sede della coercizione forzata dei lavoratori: alla violenza socialista perpetrata contro i contadini e gli agrari, Grandi risponde con l'organizzazione degli assalti di difesa dello squadrismo; col “santo manganello” riesce a ristabilire ordine e disciplina nelle campagne bolognesi, così come Balbo riuscì a fare nel ferrarese; diventato un eroe del mondo agrario locale viene eletto Deputato nel maggio del '21; tuttavia non avendo ancora l'età richiesta per l'elezione (30 anni; lui ne ha ancora soltanto 26!), viene sostituito da un collega più vecchio. Continua pertanto ad essere la guida delle organizzazioni sindacali contadine Fasciste con prospettive rivoluzionarie antiborghesi. Accolse freddamente il patto di pacificazione voluto da Mussolini con le forze avverse e depose suo malgrado il "santo di legno": a Mussolini disse: “Con il patto i rossi rialzano la cresta!”. Il giovane Grandi espresse questo suo pensiero in un articolo dell'Assalto il 6 agosto 1921, contestando la nuova linea morbida e ribadendo che l'orda rossa doveva essere piegata ad ogni costo. Mussolini gli risponde tre giorni dopo sul Popolo d'Italia esigendo un chiarimento ed affermando che la Rivoluzione necessitava di un momento di tranquillità che preludesse alla vittoria finale, mettendo in conto anche una eventuale scissione dall'ala oltranzista di Grandi e perfino le dimissioni dal Movimento dei Fasci. Il 16 agosto del 1921 Grandi riunisce l'ala oltranzista a Bologna, che decide all'unanimità di chiedere a Mussolini la rescissione del patto; Mussolini risponde con le dimissioni dalla commissione esecutiva dei Fasci. Di fronte a tale inaspettata crisi Grandi e Balbo si rivolgono a D'Annunzio sperando in un suo intervento pacificatore. Al congresso Fascista di Roma del novembre '21 si paventa una scissione, ma Grandi nel suo discorso si dimostra disponibile al compromesso e propone a Mussolini alcuni punti di accordo, ribadendo però la sua contrarietà al patto di pacificazione. Mussolini risponde accettando le condizioni di Grandi: con la fine del congresso, che si temeva sancisse una scissione, il Fascismo si ritrova unito più che mai e trasformato a grande maggioranza da movimento a Partito, con alla guida, lui, Benito Mussolini, il futuro Duce. Dentro il nuovo partito Grandi emerge subito come inaspettato moderatore dei rivoluzionari romagnoli.
Alla vigilia della Rivoluzione del '22, insieme a De Vecchi e Federzoni si reca a Roma per organizzare le squadre e viene nominato da Mussolini Capo di Stato Maggiore dei Quadrumviri. In tale veste è tra gli organizzatori della trionfale Marcia su Roma. Contrario come Bianchi a una coalizione con i popolari, propone in un articolo sul Popolo d'Italia del 12 Gennaio 1923 una soluzione "tecnica" con un gabinetto "apartitico", soluzione però non accettata da gran parte del Partito. Rifiuta perciò di diventare Ministro del nuovo governo. Eletto Deputato del PNF nel 1924, Grandi diventa subito Vicepresidente della Camera, ad appena 29 anni; nello stesso anno si sposa con l'ereditiera Antonietta Brizzi, sua conterranea, che gli porta una cospicua dote. Questa donna, colta e bellissima, sarà un'eccellente moglie, che accompagnerà Grandi nella sua futura attività diplomatica. Con la vicenda del delitto Matteotti del giugno '24, Grandi è tra gli artefici dell'opera di rassicurazione dell'opinione pubblica e degli ambienti moderati. Nel nuovo governo, il Duce gli affida la carica di Sottosegretario agli Interni, e, nel maggio del '25, di Sottosegretario agli Esteri, carica che terrà per quattro anni, in cui tra l'altro, imparerà perfettamente la lingua inglese ed entrerà in contatto col mondo britannico.
Il 12 settembre del 1929 Grandi diventa Ministro degli Esteri in una fase molto delicata, e ancor più delicata quando in ottobre il mondo entra in crisi dopo il ben noto crollo di Wall Street. E' il momento in cui occorre rilanciare l'iniziativa italiana e soprattutto il Fascismo, che ora, con l'America in crisi, l'Inghilterra isolazionista, la Russia nel terrore comunista e la Germania sull'orlo del baratro, è il sistema economico e politico che tutti guardano come modello. Nella sua veste di Ministro degli Esteri, Grandi denota la sua eccezionale abilità diplomatica e contribuisce all'ottima immagine dell'Italia Fascista nel mondo di quegli anni. I rapporti che imposta Grandi con i vari Stati sono ottimi. Riesce addirittura ad imbastire buoni rapporti commerciali nientemeno che con i sovietici. L'obiettivo di Grandi è di puntare al mantenimento e al consolidamento di una pace in Europa, ed è molto realista. Disse una volta, profetico: “una guerra oggi fra le Nazioni d'Europa altro non si risolverebbe se non in una immane catastrofica guerra civile, in un vero e proprio tramonto e suicidio del nostro vecchio e glorioso continente”. Inoltre è realista sull'Italia bellica e sull'Italia politica: “Il Paese è ricco di uomini, ma è povero di risorse, e non può ancora permettersi il lusso di competere con le grandi potenze sulla preparazione bellica”. E ancora: “Bisogna impegnarsi coraggiosamente in una politica di pace, volta al disarmo e alla collaborazione internazionale. L'Italia può conquistare un suo ruolo specifico e decisivo nel contesto europeo e porre così le condizioni per far valere le proprie storiche rivendicazioni (...) fino a condizionare la politica estera non soltanto in Africa o sul Mar Rosso, ma anche su un più vasto terreno internazionale, in Europa e nei rapporti intercorrenti con la Francia e l'Inghilterra. Non dobbiamo parificarci adesso nei loro confronti come grande potenza, nè possiamo imporlo, ma creare le condizioni per arrivare a confrontarci: questo lo possiamo fare. Il problema sarà quello di creare un ruolo stabile nel contesto internazionale, dobbiamo darci delle direttive di fondo e ispirarci all'azione. Una potrebbe essere quella di fare dell'Italia l'arbitro della situazione europea, l'ago della bilancia”. Mai nessun Ministro degli Esteri fu così lungimirante; il 2 ottobre 1930 disse: “La Nazione italiana non è ancora abbastanza potente, politicamente, militarmente ed economicamente, da potersi considerare come una nazione protagonista della vita europea. Ma la Nazione italiana è già tuttavia abbastanza forte per costituire col suo apporto politico e militare il peso determinante alla vittoria dell'uno o dell'altro dei protagonisti del dramma europeo, che prima o dopo esploderà. Posizione quindi di forza e di prestigio, posizione aperta a tutte le possibilità nel futuro a condizione beninteso che l'Italia rimanga libera di scegliere il proprio posto in caso di conflitto a seconda di quelli che essa giudicherà al momento opportuno essere esclusivamente i suoi vitali interessi nazionali”. Durante una riunione della Società delle Nazioni, il 31 agosto del 1930, già aveva scritto un appunto ancor più determinato al Duce, citando Machiavelli: “Il tempo lavora per noi. Noi saremo arbitri della guerra. Ma dobbiamo prendere più alta quota possibile nella politica continentale europea. Fare della diplomazia e dell'intrigo, applicare Machiavelli un po' più di quello che non abbiamo fatto finora. Il Trattato di Locarno è un pezzo di carta inventato dalla democrazia, può diventare nelle nostre mani la biscia che morde il ciarlatano. Con tutti e contro tutti...". Grandi ripeterà le stesse cose nell'ottobre del 1931 al Gran Consiglio. Eppure molti lo accuseranno di pacifismo e disarmismo. Nella sua azione, Grandi cerca di mettere in difficoltà la Francia, che da tempo è arrogante e si crede egemone in Europa; "Se riusciamo a far questo sarà la stessa Francia a cercare accordi con noi". Ed è per questo che Grandi insiste sulla rivalutazione della Società delle Nazioni; lui mira a farla diventare una comunità di eguali che si misurano unicamente sul prestigio e sulla forza politica. Operando così, Grandi spiazzò tutti gli antifascisti che accusavano il Fascismo, aprioristicamente e in malafede, di essere bellicista. Inoltre questa politica di Grandi rafforzò le già buone relazioni con la Gran Bretagna. Non solo, ma dagli stessi Stati Uniti, quando Grandi nel novembre del '31 volò a incontrare il presidente Hoover, ricevette molti apprezzamenti e la politica del Fascismo in Europa e nel mondo iniziò ad avere un credito universale. Sebbene Grandi operi diplomaticamente con queste idee costruttive, la Francia non demorde, e anche se lo stesso Grandi ha smascherato a Londra la scarsa volontà della Francia al disarmo, ottiene solo una moratoria nella costruzione di nuove armi per un anno; ma il fastidio e le ostilità di fondo rimangono. La Francia rimane ostile all'Italia a prescindere da tutto, poiché troppo la infastidisce avere un vicino potente.
Intanto si affaccia sulla scena la Germania di Hitler, assurto al potere nel '33, con le sue richieste di annullamento delle riparazioni di guerra e di riscossa dalle umiliazioni subite a Versaglia. Di fronte a un riarmo improvviso di Francia e Germania, sfuma così il sogno di disarmo di Grandi. Quando Mussolini inizia a guardare con interesse alla Germania, lo fa, di concerto con Grandi, con lo scopo di rendere l'Italia il famoso ago della bilancia. A questo punto Grandi, dimessosi da Ministro degli Esteri, viene inviato come Ambasciatore a Londra, dove resterà per sette anni, mantenendo ottimi rapporti con gli inglesi, alternandosi fra mondanità e politica. Sette anni eccellenti in quanto a diplomazia, nonostante l'impresa dell'Italia in Etiopia, malvista e boicottata dai britannici, nonostante le inique Sanzioni e la guerra civile spagnola. Grandi fa il possibile perché Albione ragioni e “non faccia il vile gioco della Francia”, ma l'attrito cresce di anno in anno. Questo immenso sforzo diplomatico gli viene riconosciuto dal Duce e dal Re, che lo crea nel 1939 Conte di Mordano. Con la Firma del Patto d'Acciaio, che Grandi definì assurdo, inizia un grave attrito con Mussolini e Ciano. Grandi continua una diplomazia ormai sterile con Gran Bretagna, Russia e Francia. Essendo ormai rotti i rapporti con la Gran Bretagna, Grandi viene nel Luglio del 1939 richiamato dal Re in Italia e viene nominato Ministro della Giustizia, Guardasigilli e Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (la quarta carica del Regno).
In settembre scoppia la guerra in Polonia: Grandi affronta Mussolini e lo consiglia di denunciare il Patto d'Acciaio e di riprendere contatti con la Gran Bretagna. Egli teme che l'Italia, intervenendo a fianco della Germania, cadrà nel baratro. Grandi è soddisfatto quando Mussolini si risolve per la non belligeranza. Tuttavia non riesce ad evitare la dichiarazione di guerra del 1940. Per evitare comunque che nasca subito una divisione politica, il Presidente Grandi pronuncia alla Camera un discorso dai toni aggressivi e bellofili. All'apertura del fronte greco, Grandi decide di partire volontario (caso unico per un Presidente della Camera) e tocca con mano la totale impreparazione militare non solo di mezzi ed è costretto a vedere nei comandi tanta superficialità e tante accuse reciproche. Intelligente com'è, Grandi forse è l'unico a rendersi conto pienamente della gravità della situazione. Dirà in seguito nelle sue lunghe memorie suddivise in due libri (“25 luglio, quarant'anni dopo” e “Il mio Paese”): “i fatti erano quelli e piuttosto chiari”, ammettendo di aver meditato ed abbozzato già allora il famoso ordine del giorno del 25 luglio 1943. I tedeschi chiamati in aiuto salvarono momentaneamente la situazione in Grecia, ma quando Grandi rientrò a Roma nell'aprile del 1941 era totalmente scoraggiato e scrisse all’incirca: “ne ho viste tante in sei mesi: la nostra totale impreparazione, l'arroganza tedesca; vidi liquidare Badoglio come capro espiatorio da un impreparato come Farinacci, che pur avendo tante responsabilità, non era certo l'unico colpevole”. Grandi decide di esprimere tali e tante perplessità al Duce stesso, che però non gli presta ascolto, e al Re, che gli confida semplicemente di non sapere che fare.
Dopo un mese c'è l'invasione tedesca alla Russia e Grandi decide di dedicarsi al suo compito di Ministro della Giustizia: in tale veste, avvalendosi della collaborazione dei maggiori esperti di diritto procede alla riforma dei codici di Procedura Civile, del Codice di Navigazione e del Codice Civile, ultimato brillantemente nel 1942; contrario alle leggi razziali sin dal ‘38, ottiene che non siano inserite nel Codice Civile, ma restino nella legislazione transitoria ordinaria. Viene insignito nel marzo del 1943 del Collare della SS. Annunziata. Precipitando gli eventi, si risolve all'azione: ormai deluso da un Mussolini, a suo giudizio ormai privo di volontà e succubo di Hitler, redige l'ordine del giorno che determina la caduta del Regime nel luglio del 1943; nel caos generale che ne segue si rifugia all'estero (Portogallo, Brasile, Spagna), presso i numerosi Ambasciatori che aveva conosciuto nella sua lunga attività diplomatica, rifiutando di partecipare a qualunque governo. Condannato a morte in contumacia prima dal tribunale di Verona del 1944 e in seguito dai tribunali partigiani gappisti, torna in Italia dopo l'amnistia nel 1946.
Nei quarant'anni che seguirono si dedicò privatamente al giornalismo e alla scrittura di libri di memorie, difendendo il suo operato dagli attacchi da un lato dei rossi, dall'altro dei reduci Repubblichini, proclamando di aver agito sempre secondo coscienza per il bene dell'Italia. Gli fu anche proposto di ricandidarsi alla Camera, ma rifiutò costantemente.
Morì a Bologna il 21 maggio 1988 vicino alla ragguardevole età di 93 anni.

 

LUIGI FEDERZONI
(1878-1967)

 

Il fondatore del Nazionalismo Italiano, Monarchico di ferro, grande letterato, uomo coltissimo. Terza carica del Regime, Presidente del Senato per un decennio, assolutamente contrario all’alleanza con la Germania, accuserà Mussolini di aver tradito il Fascismo, ribaltando l’accusa mossagli dopo il 25 luglio e scagliandosi violentemente contro la RSI.
 

Di nobile famiglia, Luigi Federzoni nasce a Bologna il 27 settembre 1878, figlio di Giovanni, Professore d’Italiano e studioso di Dante, ed Elvira. Eccellente studente, dopo aver frequentato il Liceo si iscrive all’Università della sua città, dove conosce Carducci, e in breve tempo riesce a laurearsi in Lettere e poco dopo in Giurisprudenza (1900). Giovinetto, si appassiona alla letteratura e alla pittura; scrive romanzi, opere teatrali e dipinge. Accantonata la passione artistica, intraprende l’attività di giornalista e sposa Luisa Melotti Ferri, detta Gina. Nei suoi primi scritti giornalistici, svolti nei principali giornali nazionali, Federzoni si fa promotore di un’unificazione di tutte le molteplici tendenze nazionalistiche che in quei primi anni del nuovo secolo andavano formandosi. Federzoni fu il primo ad intravedere che un compattamento di queste forze per certi versi ancora molto eterogenee avrebbe creato le basi per un grande movimento di massa. Questo impegnativo lavoro culminò nel 1910, quando Federzoni riuscì a costituire l’Associazione Nazionalista Italiana (ANI) in cui ritrovansi quegli uomini appartenenti un po’ a tutte le anime del composito nazionalismo italiano, che in seguito avrebbero trovato compiutezza nel Fascismo. Tra questi vi erano nazionalisti della sinistra storica crispiana, nazionalisti della destra storica, nazionalisti Cattolici, ognuno con le sue esperienze e i propri principî, ma tutti accomunati da quella volontà di cambiamento nazionalista che col suo impeto avrebbe dovuto “rimodellare” l’intera Nazione. Queste premesse portarono alla stesura di un programma comune. Nel 1911 Federzoni fonda il giornale L’Idea Nazionale, che diventa subito il punto d’incontro e di dibattito tra tutte le correnti del nazionalismo Italiano, auspicando il passaggio dall'associazionismo alla fondazione vera e propria di un Partito Nazionalista. Questo processo fu lungo e laborioso e in particolare si attuò col convegno di Roma del 1912, che proclamò l'interventismo in Libia, e con quello di Milano del 1914, con cui l’associazione divenne definitivamente Partito Nazionalista. Intanto già nel 1913 Federzoni era stato eletto Deputato, primo esponente nazionalista a giungere alla Camera. In quegli anni la nuova cultura che si era sviluppata attorno a riviste quali Il Regno e La Voce, con i suoi Verga, De Amicis, Rapisardi, De Sanctis, D’Annunzio, Pascoli, Pirandello, Borgese, Marinetti, Gentile, Croce si ritrovò largamente coinvolta nel nuovo progetto nazionale e lo stesso Federzoni ebbe numerosi contatti con tutte queste personalità. Federzoni contribuisce a superare il “dibattito negativo”, limitato alla critica del positivismo, della democrazia, del liberalismo, del socialismo materialista, per trasformarlo in “dibattito positivo”, con l’individuazione cioè di obiettivi, metodi e strumenti sociali e politici. Tra i fautori di questa trasformazione troviamo, accanto al Federzoni, Enrico Corradini con tutti coloro che si ritrovarono intorno al giornale L’Idea Nazionale e cioè Maraviglia, Coppola, Forges Davanzati e dal 1914, Alfredo Rocco, il celebre giurista del futuro Codice Penale. Il presupposto sociale che Federzoni individua è quello dell'unione fra “élite di classe”: élite proletaria, borghese, aristocratica. In particolare si assiste ad una volontà di rigenerare l’intera classe borghese, il cui compito politico primario appare ora quello di sostituire le vecchie élite borghesi decadenti del trasformismo giolittiano e di opporsi fieramente all’avanzata marxista. Per operare tale rigenerazione, la borghesia avrebbe dovuto, conseguentemente, dimostrarsi in grado di agire, non più in difesa dei suoi interessi di classe, ma come elemento di punta dell’intera collettività nazionale, come classe dirigente l'economia della Nazione. Il problema sociale di cui era portatore il proletariato, pertanto, doveva essere risolto grazie all’azione della nuova borghesia nazionale, utilizzando le armi dell’espansionismo coloniale e dell’imperialismo: l’acquisizione di nuovi spazi avrebbe determinato le condizioni per la crescita economica di un proletariato liberato finalmente dalla menzogna marxista. Da questa impostazione derivavano sia la supremazia della politica estera sulla politica interna, sia il bisogno di uno Stato forte, disciplinato, che trovava i suoi simboli unificanti nella Monarchia e nell’Esercito.
Le ricadute ideali e politiche di questa impostazione non erano di poco conto. La definizione dell’apparato ideologico del partito, condusse a superare il semplice patriottismo e ad abbandonare vecchi baluardi del Risorgimento come l’anticlericalismo e il liberalismo economico, ritenuto prodotto dell’individualismo, figlio, quindi, della stessa pianta da cui nasceva il socialismo. Proprio in quest’ottica vanno interpretate alcune defezioni dal partito, avvenute tra il 1911 e il 1914, giudicate necessarie da Federzoni: uscì dal partito Sighele, che voleva ridurre il nazionalismo all’irredentismo; se ne andarono Arcari, Rivalta e Valli, capifila dell’associazionismo e del vecchio nazionalismo anticlericale di stampo risorgimentale; se ne uscì l’intera ala liberale, confluita poi nel liberalismo giolittiano.
Dopo il successo alle politiche del 1913, il partito di Federzoni conquista numerosi seggi alle elezioni amministrative del 1914. Con lo scoppio della Grande Guerra il Partito Nazionalista è in prima fila nella campagna interventista e Federzoni sprona con dibattiti tutto il mondo culturale all’intervento. Col 24 Maggio del ’15 Federzoni parte volontario nell’esercito combattendo per quasi tutto il quadriennio e ottenendo una medaglia d'argento al valore militare.
Dopo la Vittoria, contemporaneamente alla nascita delle Camicie Nere Fasciste, anche Federzoni decide di costituire un gruppo paramilitare che funga da braccio armato del Partito Nazionalista: sono le Camicie Azzurre, che giunsero nel 1922 al numero di 30.000 unità ed ebbero l'azzurro dal colore della Real Casa; il loro motto fu “sempre pronti” e l'inno “Fiamma Azzurra”, il cui ritornello suona: Noi giuriam con viva gioia/ di combattere e morire/ per l'azzurro dei Savoia/ per l'Italia e per il Re.
Durante i turbolenti anni del primo dopoguerra si assiste al lento e talora contrastante avvicinamento tra il Nazionalismo di Federzoni e il Fascismo di Mussolini. Tuttavia già dalla comune lotta interventista, enorme rimaneva lo jato fra il concetto mussoliniano di guerra rivoluzionaria e quello federzoniano di guerra imperialista. Di un vero e proprio problema di rapporti fra Fascismo e Nazionalismo, pertanto, si può parlare fino al 1921, quando si attua la svolta decisiva nell'azione che porterà alla Marcia su Roma. Infatti con le elezioni che portano in Parlamento 35 deputati Fascisti eletti nei Blocchi Nazionali e col congresso Fascista dell’Augusteo, del novembre 1921, si certifica la definitiva alleanza di ferro del Fascismo col Nazionalismo, di Mussolini con Federzoni.
Tuttavia a porre per primo il problema di una fusione tra i due movimenti non fu né Mussolini né Federzoni, bensì il futuro Quadrumviro Cesare De Vecchi nel corso di un’intervista rilasciata all’Idea Nazionale il 16 novembre 1921. Federzoni, dal canto suo, raccolse la proposta sottolineando però che: “primo: i nazionalisti sono fermamente Monarchici mentre i Fascisti sono ancora agnostici; secondo: nonostante le sue straordinarie benemerenze, il Fascismo non ha ancora acquistato vera consistenza e organicità di partito politico e non potrà farlo che identificandosi col nostro Nazionalismo”. Così l'altro esponente nazionalista di spicco, il siciliano Prof. Francesco Ercole che, sempre nel 1921 nel suo articolo “Contro un’affrettata fusione”, rimarcava i pericoli che scaturivano dalla ancora presente mancanza Fascista di “una concezione etica e integrale della vita”. Da parte Fascista, il 2 febbraio 1922, in un articolo sul Popolo d’Italia intitolato "Per intenderci", a Federzoni ed Ercole rispondeva Dino Grandi, capovolgendone le tesi: non era il Fascismo che doveva identificarsi col Nazionalismo, ma, al contrario, era questo che doveva modificarsi e venire sulle posizioni del Fascismo: “Mentre il Nazionalismo è nato dalla elaborazione dottrinaria per giungere alla negazione pratica, si potrebbe quasi dire che il Fascismo è nato dalla negazione dottrinaria, per giungere all’elaborazione pratica. In un periodo storico che afferma l’incontrastato dominio delle grandi correnti popolari, ieri assenti, ed oggi quanto mai volitive, presenti e chiamate ad operare entro i partiti, il Fascismo altro non può essere se non l’espressione di questa grande realtà storica”. Federzoni rimase assai colpito dall’articolo di Grandi e ne parlò con Mussolini, il quale, dopo un’iniziale cautela, accoglierà totalmente le tesi grandiane.
Intanto il 23 Marzo 1922 Federzoni diventava Vicepresidente della Camera dei Deputati. Avvicinandosi la Marcia su Roma, l'unione dei movimenti si accelera. Federzoni, parlando al Lirico di Milano il 15 ottobre 1922, ribadì l’assoluta e imprescindibile importanza della difesa della Monarchia, la necessità di un governo “in una parola di reazione”, ottenibile anche con una Rivoluzione. Poco dopo al Teatro San Carlo di Napoli analogo discorso teneva Mussolini, ribadendo “assoluta fedeltà e dedizione a Casa Savoia”. Lo stesso giorno, sempre a Milano, con tempismo non casuale, si teneva una riunione delle Camicie Azzurre sull’atteggiamento da tenere se i Fascisti fossero passati all’azione. Le Camicie Azzurre risolsero subito: “affianco alle Camicie Nere”. Con la gloriosa Marcia su Roma del 28 Ottobre 1922, ove Camicie Nere e Camicie Azzurre compirono insieme la Rivoluzione, furono ultimate le ultime formalità per la fusione e nel 1923 le Camicie Azzurre confluivano nelle Camicie Nere e nella MVSN, col preciso compito della difesa del Regime Fascista indissolubilmente legato a Casa Savoia. Tutta la dirigenza del Partito Nazionalista confluiva nel PNF, rivestendone subito importanti cariche. In particolare Federzoni fu subito ammesso al neonato Gran Consiglio del Fascismo. Il 31 Ottobre 1922 Federzoni, dimessosi da Vicepresidente della Camera, entra nel primo governo Mussolini quale Ministro delle Colonie (31 ottobre 1922-17 giugno 1924), per poi diventare nel secondo gabinetto Ministro dell'Interno (17 giugno 1924-6 novembre 1926) e nuovamente Ministro delle Colonie (6 novembre 1926-18 dicembre 1928). In tali vesti ottiene importanti successi in particolare nell’opera di normalizzazione seguita alla Rivoluzione e durante la “crisi Matteotti”. Nei primi mesi del 1927 Federzoni, da poco tornato al dicastero delle Colonie, inizia a scrivere i suoi Diari, preziosa autobiografia, ove annota puntualmente, ora per ora, le proprie giornate, i propri incontri, le proprie impressioni. Ne emerge un quadro interessante e talvolta ironico e malinconico sulla difficoltà dell’azione di governo, constatando come la scorrettezza di un solo uomo possa talora capovolgere la correttezza di molti uomini. In questo suo secondo mandato alle Colonie, Federzoni si occupa del riassetto amministrativo della Libia, in vista di una sua piena adesione al Regno d’Italia come regione vera e propria. Tuttavia dai suoi Diari si nota una certa insofferenza per lo scarso zelo con cui fu accolto il progetto di legge: “ho l'impressione che nessuno (…) si sia reso conto dell'importanza storica e del significato di novità di questa legge, rispetto alla posizione dell'Italia nel Mediterraneo”. Il 22 Novembre del 1928 Federzoni è nominato Senatore del Regno. Del Senato diventa Presidente il 29 aprile 1929, diventando la terza carica del Regno per circa 10 anni, fino al 2 marzo del 1939. In tale veste assurge a grandissimo prestigio, anche internazionale. Incrementa in modo impressionante la sua attività culturale, diventando Presidente dell'Istituto di Studi Romani (1929-1931), Presidente della Società anonima letteraria Nuova Antologia (1931), Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei (6 maggio 1935-4 gennaio 1946), Presidente dell'Istituto Fascista dell'Africa Italiana (1937-1940), Presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana (17 marzo 1938-6 ottobre 1943), Presidente dell'Accademia d'Italia (1938-1943) dopo Marconi e D’Annunzio. Tra le sue attività in Senato si segnalano la Presidenza della Commissione per il Regolamento Interno, nella cui veste contribuisce a dar sempre maggior lustro all’Alta Camera, e la partecipazione alla Commissione dell'Educazione Nazionale e della Cultura Popolare dal 1939 al 1943.
Grande ruolo ebbe inoltre Federzoni come Consigliere di S. M. il Re e come intermediario nei rapporti col Vaticano, sia nell'avvio del processo di Conciliazione e di ratifica del Concordato, in particolare grazie ai suoi contatti con Mons. Luigi Haver, sia in seguito per dirimere i problemi sorti circa l’associazionismo Cattolico. In questo periodo intraprende numerosi viaggi nel mondo, abbinando la politica al viaggio di piacere. In particolare in Germania ha un interessante incontro col neo-cancelliere Hitler. Ecco il ritratto che ne fa nei suoi Diari: “È un tipo franco, vivace, dai capelli neri impomatati, con una ciocca quasi napoleonica sulla fronte. Porta i baffetti neri tagliati a spazzola e ridotti alla minima estensione sotto il naso. Parla gesticolando, e con un accento incisivo e perentorio. La figura fisica e il modo di fare sono assai piú dell'austriaco che del tedesco. Mostra un'assoluta sicurezza di sé. Piú che un demagogo, mi sembra un allucinato, ma comprendo come, anche perché tale, egli possa magnetizzare le folle. Possiede un'inarrestabile abbondanza di parole (...) Egli dice, in sostanza, che per i nazionalsocialisti il problema non è la lotta per la conquista del potere ma l'azione costruttiva dopo tale conquista (...). Sulla prossima vittoria dei nazionalsocialisti Hitler non ha dubbi”,
Ostilissimo alle leggi razziali, considerate totalmente estranee alla Nazione ed eticamente errate, si stupì di come, nonostante la manifesta opposizione della maggioranza dei gerarchi e dei parlamentari, esse avessero comunque ottenuto l’avvallo necessario per la promulgazione; in proposito ebbe violenti scontri con Farinacci e iniziò a manifestare i primi dissidi col Duce. Fieramente contrario all’alleanza con la Germania e alla partecipazione alla guerra, si scontrò apertamente con Mussolini, ma rimase inascoltato. Risoltosi ad appoggiare un cambio di governo, fu tra i promotori dell’ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943. Chiuso improvvisamente il Senato per decreto del nuovo Presidente del Consiglio Badoglio, si ritirò presso l’Ambasciata portoghese del Vaticano, da dove si scagliò violentemente contro la neonata Repubblica Sociale Italiana e Mussolini, da lui definito “traditore dell’idea”. Condannato a morte in contumacia al processo di Verona del 1944, rimase in Vaticano fino al 1947, dedicandosi alla stesura di libri e memoriali, tra cui: Memorie inutili della famiglia Federzoni, curiosissima raccolta di avvenimenti giovanili apparentemente insignificanti, ma ricchi di morale; Le memorie di un condannato a morte, che fu in seguito ampliato dall’autore quale Italia di ieri per la storia di domani, lucida e drammatica analisi degli avvenimenti dal settembre 1943 al giugno 1944: in esso Federzoni si scaglia contro i repubblichini e afferma che laddove per Mussolini egli, con gli altri, rappresentava il traditore, per lui era Mussolini che, con la sua politica demagogica e con l'aver trascinato l'Italia nell'avventura bellica, aveva tradito i presupposti su cui tutti loro avevano costruito il Fascismo e nei quali avevano creduto, poiché questo falso Fascismo degli ultimi anni “non attuò, bensí sciupò, travisò e infirmò, con una volgarizzazione superficiale di tono demagogico, un organismo di idee in cui era un'essenza classica di ordine, di giustizia e di grandezza morale”, e ancora “Dal canto mio, alla vigilia della Marcia su Roma, l'8 ottobre 1922, parlando al Lirico di Milano in nome dei miei amici, avevo francamente indicato a quali condizioni i nazionalisti avrebbero assecondato un'eventuale azione di governo dei Fascisti: rafforzamento dell'autorità dello Stato sopra i partiti; impero assoluto della legge; riconoscimento della Monarchia come presidio fondamentale dell'unità e continuità della Nazione; tutela dei valori religiosi ed etici; elevazione materiale e morale dei lavoratori, accompagnata a ferma difesa dell'ordine sociale; indirizzo economico e finanziario antidemagogico. Avrò torto; ma io sono rimasto ligio a quei principî, nei quali allora pareva che tutti convenissimo”. Senza mezzi termini Federzoni afferma che era stato proprio Mussolini “ad aver contribuito per il 90 per cento al collasso dell'Esercito, con la sua opera incompetente e incoerente di Ministro delle Forze Armate per oltre quattordici anni e poi di comandante supremo in guerra, e ad aver portato il paese alla disfatta”. Ed era proprio questo che non gli veniva perdonato e che aveva portato i 19 membri del Gran Consiglio, la maggioranza, ad esautorarlo e molti altri a negargli la fiducia che gli avevano dato per vent'anni. In questa posizione, Federzoni riassume in sé in modo veemente l'atteggiamento di quella classe politica e intellettuale che aveva creduto nel Fascismo e accusava Mussolini di “aver dilapidato follemente il patrimonio dell'unità, dell'indipendenza e della potenza d'Italia, formato con lo sforzo secolare della Nazione; il patrimonio che egli stesso, nei primi anni del suo governo aveva accresciuto e perfezionato”. Un patrimonio che era stato talmente disperso dalla disastrosa condotta della guerra da portare gli italiani, e Federzoni in prima persona, addirittura all’odio totale verso i repubblichini e i tedeschi ed a sperare in una loro sconfitta totale. Mentre Mussolini finiva “la sua carriera come mercante di schiavi, lasciando che i tedeschi rastrellino ragazzi per il loro esercito. (…) Si pone all'Italia il problema di risorgere: bisogna che gli Italiani, senza dipartirsi dalla loro silenziosa discrezione, si facciano nuovamente conoscere e stimare, ossia dimostrino di essere, come possono essere, un popolo serio, un popolo che sa ancora vigorosamente combattere per una giusta causa: il popolo del Piave e di Vittorio Veneto”. Questo diario esprime il travaglio di una generazione che aveva visto crollare definitivamente i propri ideali e che ora si interrogava sul proprio futuro. Da questo punto di vista, Federzoni sembrerebbe apprezzare le mosse dei partiti antifascisti e perfino dei comunisti, a cominciare da Togliatti e dal suo appello affinché si cessasse di rivendicare l'abdicazione del Re: con questa richiesta si poneva “termine e rimedio alle inconcludenti diatribe dei vecchi antifascisti ed ex-fuorusciti, esasperati dai loro asti settari, inchiodati alle loro negative posizioni dottrinarie”. Federzoni intuiva che una politica di pacificazione e “ogni cooperazione”, “compresa questa dei comunisti”, potevano essere una soluzione per il futuro del paese: questo perché ad esso, all'indomani della guerra, si sarebbero poste due alternative: “O l'Italia avrà ritrovato nei nuovi cimenti il vigore spirituale che essa destò in sé venticinque anni or sono, e vincerà anche la minaccia del sovvertimento interno; o avrà fallito pure quest'altra prova, e dovrà correre l'alea di diventare, come la nascente Jugoslavia, un pianeta un po' piú grosso del sistema di cui Mosca è il sole”.
Le vicende personali dell'ex terza carica del Regno, condannato all'ergastolo dall'Alta Corte di giustizia nel maggio 1945, avrebbero tuttavia esasperato l'astio nei confronti dei nuovi partiti al governo del paese e annullato ogni sentimento di conciliazione: il fatto di aver subito due condanne antitetiche (la condanna a morte al processo di Verona per tradimento del Fascismo e quella all'ergastolo dell'Alta Corte per essere uno dei massimi esponenti del Fascismo stesso), lo “specialissimo accanimento di autorevoli antifascisti, succeduto immediatamente alla spietata persecuzione mussoliniana”, lo portavano a vedere nel proprio caso personale “un riflesso sia pur minimo dell'atroce marasma di questa Italia che non trova pace neppure con sé stessa, avendo ricevuto in eredità dalla guerra maledetta la discordia, che oggi pare insanabile, dei suoi figli”. Che erano i motivi per i quali, all'indomani del comunicato del mandato di cattura contro di sé e altri gerarchi del settembre 1944, aveva deciso di non costituirsi: “non ho alcuna fiducia - scriveva in una lettera per Bonomi - nell'imparzialità del giudizio che dovrei affrontare”, dato “il preconcetto della mia reità, proclamata prima e all'in fuori d'ogni conoscenza dei dati di fatto”. In un Memoriale difensivo del luglio 1944 rivendicava la sua ligia posizione di “Fascista degli ideali e della buona fede”, opposto ai fascisti della convenienza o del fanatismo servile, capeggiati da Pavolini e Farinacci.
Disgustato anche dai partiti antifascisti ora al potere, nel 1947 Federzoni lascia il Vaticano per il Brasile, ma torna in Italia per difendersi dalla condanna in contumacia a 30 anni subita dall’Alta Corte per il giudizio dei reati fascisti; viene così amnistiato nel dicembre dello steso anno. Nella sua deposizione, in cui si scaglia violentemente contro i comunisti, ribadisce tra l’altro la totale estraneità della Monarchia ai fatti del 25 luglio 1943: “il crollo di Mussolini e del Fascismo è avvenuto per il voto del Gran Consiglio. Contrariamente a quanto è stato piú volte raccontato (...) Dino Grandi e io, promotori del voto, agimmo di nostra spontanea iniziativa, all'infuori di qualsiasi inspirazione della Corte o dello Stato Maggiore. (...) Per parecchi anni il compianto Italo Balbo, io e - compatibilmente con la sua continua assenza dall'Italia - Dino Grandi eravamo stati chiamati i «frondeurs» del Gran consiglio, chiaramente avversi all'indirizzo totalitario della politica interna e a quello filonazista della politica estera. (...) Nel luglio 1943 un certo rinnovamento apportato di recente alla composizione del Governo e, per riflesso, in quella del Gran Consiglio, mediante l'immissione di elementi ottimi, come De Marsico, Pareschi, Bastianini, Albini e altri, e principalmente l'impressione di sgomento prodotta dai disastri della guerra, autorizzava la speranza che un voto di biasimo dei funesti errori politici e militari che li avevano causati potesse finalmente raccogliere una maggioranza. E cosí, infatti, avvenne”, nella speranza di una purificazione del Fascismo. Stabilitosi definitivamente a Roma negli anni ’50, Federzoni proseguì la propria attività letteraria, appoggiando politicamente il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM), senza tuttavia impegnarsi più nella politica attiva. Morì a Roma il 24 Gennaio del 1967 all’età di 88 anni.

 

ITALO BALBO
(1896-1940)

 

Giovane ardito della Grande Guerra, vivace organizzatore dello Squadrismo e del Fascismo, Quadrumviro della Marcia su Roma in rappresentanza dell’ala squadrista. Eroe delle trasvolate oceaniche e simbolo dell’orgoglio nazionale italiano tra gli anni ’20 e ’30, perisce all’inizio della seconda guerra mondiale in un grave quanto assurdo incidente aereo.

Italo Balbo nasce a Quartesana di Ferrara il 6 giugno 1896, da famiglia borghese. Giovanotto allegro, alto, magro e robusto portò sin da giovane una caratteristica barbetta a pizzo. Interventista convinto, allo scoppio della Grande Guerra si arruolò inizialmente nei reparti ciclisti e poi nell’8° reggimento degli Alpini (1915-18), lasciando momentaneamente l’Università. Al fronte fondò il giornale di trincea L'Alpino, che diventerà la testata ufficiale dell’Associazione nazionale delle penne nere.
Tornò dalla Guerra Vittoriosa con i gradi di Capitano, raggiunti per successive promozioni, e con due medaglie d'argento e una di bronzo al valor militare. Aveva combattuto eroicamente, interpretando appieno lo spirito dell’arditismo; nell'azione guerresca aveva portato il suo fervore patriottico, il suo slancio interventistico e l'ardimentosa natura del suo temperamento. Fu infatti tra i promotori della figliolanza ideale dello Squadrismo postbellico rispetto all’Arditismo della guerra.

Dopo l'esperienza di guerra, conseguì a Firenze la laurea in Scienze politiche e sociali, dimostrandosi subito interessato alla politica d’azione, così come all’azione si era abituato in trincea.
Avvicinatosi all’ideale nazionalistico repubblicano e massonico, aderì al Fascismo, iscrivendosi già nel 1919 al Fascio di Firenze. Abbandonata la massoneria, tornò a Ferrara nel 1920 trovandosi di fronte ad uno dei campi di battaglia politico-sociale più accesi, con scorribande continue perpetrate dalle leghe rosse e popolazione agraria in difficoltà.
Balbo era coraggioso, decorato, esuberante e imperativo e divenne tosto il capo indiscusso delle Squadre Fasciste locali, conquistandosi la fiducia della popolazione rurale. Balbo intraprese immediatamente la lotta contro il sindacalismo socialista della Bassa padana, organizzando assalti e operazioni di difesa dalle leghe rosse, dalle camere del lavoro e financo dai municipi rossi. La sua squadra si chiamava “Celibano”, traduzione in dialetto ferrarese nientemeno che del “cherry-brandy”, bevanda preferita da Balbo e tipica del loro caffè, il “Situzz”. Il suo calore e il suo sprezzo del pericolo gli conquistarono seguito sempre più largo e la sua fama correva tutta la Bassa.

Tra le sue ardite imprese squadriste del 1921-22 si ricordano: le incursioni contro gli antifascisti di Goro, di Mesola, di Copparo, di Massafiscaglia, di Poggiorenatico; tra il 24 e il 25 marzo 1921, alla testa di 4000 uomini armati, l'assalto a Portomaggiore, occupando e tenendo il paese come un capitano di ventura; la spedizione punitiva contro Ravenna; la battaglia dell’estate del ’22 contro i socialisti di Oltretorrente a Parma, dove non riuscì a sfondare; l’assalto al Castello Estense di Ferrara; le operazioni di supporto ai Camerati di Venezia, Bologna e Milano. In particolare il primo giugno 1922 capeggiò col suo già fraterno amico Dino Grandi una specie di “marcia su Bologna”, che fu un prologo della Marcia su Roma e che si concluse con la destituzione del Prefetto.
Il 16 ottobre 1922 Balbo si incontra all'Hòtel du Parc di Bordighera con De Vecchi e De Bono, per gettare le basi dell'azione rivoluzionaria nella Capitale. In questa occasione conosce l’anziana Regina Margherita, che li invita a colazione esortandoli ad agire. Profondamente colpito dall’acume mostrato dalla Regina Madre, inizia ad abbandonare l’ideale repubblicano e a legarsi alla Casa Reale, riconoscendo alfine l’insostituibile ruolo della Monarchia. Nominato, con De Bono, Bianchi e De Vecchi, Quadrumviro in rappresentanza dello Squadrismo, conduce al trionfo la Rivoluzione, muovendo da Perugia all’Urbe.

Dopo la vittoria, resta dei più intransigenti. Costituita la MVSN (1923), Balbo, a soli ventisette anni, ne è subito uno dei quattro Ispettori Generali, con Gandolfo, Igliori e Perrone Compagni, nonché Comandante Generale. 
Intanto comincia ad interessarsi sempre più all’aeronautica, che nel 1923 il Vicecomissario Aldo Finzi aveva contribuito a trasformare in Arma dell’Esercito (Regia Aeronautica). Il Commissariato viene trasformato in Ministero dell’Aeronautica, alla guida del quale si pone lo stesso Duce, che nel novembre del 1926 lo chiama quale Sottosegretario, nella cui veste intrattiene importanti relazioni col Principe Ereditario Umberto, di cui diviene amico di ferro. Da allora si dedica, con frenetico attivismo, allo sviluppo dell'arma aerea, una passione che lo rende presto famoso in tutto il mondo e che lo porta nel 1929 ad essere nominato prima Generale di Squadra Aerea, poi Ministro stesso dell'Aeronautica.

Come Ministro, Balbo promuove subito la costituzione di organi indipendenti: il centro studi di Montecelio, diretto dall'ingegner Guidoni, per coordinare e promuovere lo sviluppo aeronautico, e la scuola di Alta velocità, a Desenzano del Garda. Partono così i primi voli di un certo rilievo, ma le aspettative di uno sviluppo efficiente e poderoso dell’arma aerea si infrangono presto con la realtà: aerei da caccia e bombardieri con velocità limitate, parco di veicoli da combattimento ancora arretrato.
Tuttavia si riesce ad organizzare una trasvolata atlantica con uno stormo di idrovolanti. Per lo scopo Balbo seleziona i migliori piloti provenienti dalla scuola di Navigazione Aerea d'Alto Mare, diretta dal Maggiore Ulisse Longo, e li addestra egli stesso al volo cieco e alla pratica delle comunicazioni radio. Il 17 dicembre 1930 decollano da Orbetello dodici idrovolanti S. 55 adattati per il volo oceanico, con l'appoggio di cinque cacciatorpediniere. Dopo le prime difficoltà, dovute al cattivo funzionamento dei motori Fiat, undici aerei riescono, il 15 gennaio 1931, ad ammarare a Rio de Janeiro, dopo aver percorso diecimila chilometri. L’impresa riesce e ciò sprona Balbo a mettere allo studio nientemeno che un giro del mondo, da effettuarsi nel 1932, nel quadro delle manifestazioni per la celebrazione del Decennale della Marcia su Roma. Il progetto però viene bloccato dalla guerra sino-giapponese che preclude i cieli dell'estremo oriente e dall'arrivo dell'onda lunga della recessione americana. Balbo è costretto a cambiare obiettivo e ad organizzare una trasvolata ugualmente notevole, la Orbetello - Chicago - New York – Ostia. Lungo il percorso vengono dislocate sei baleniere, due vedette e due sommergibili, e tre stazioni meteorologiche, appositamente allestite in Groenlandia, pronte a fornire agli equipaggi, via radio, i bollettini necessari. Il 7 luglio 1933 decollano da Orbetello venticinque S. 55, muniti di due motori Isotta Fraschini da 930 HP. Dopo il sorvolo delle Alpi, le mete successive sono in Islanda, in Canada, per ammarare infine a Chicago e successivamente a New York, dove ai piloti e a Balbo stesso viene riservato un trionfo senza precedenti a Broadway.

Balbo entra così nella leggenda, ricevendo anche gli onori del Duce che lo premia col grado supremo di Maresciallo dell'Aria e con un trionfo Romano. Il 26 novembre del 1933 Balbo viene nominato Governatore della Libia e in tale veste avvia la trasformazione della Colonia in regione a tutti gli effetti, con 4 Province (Tripoli, Bengasi, Misurata, Derna) e un Territorio Desertico direttamente amministrato dal Governo Nazionale.

Con la partecipazione alla guerra civile spagnola si assiste alla prima sfida per i piloti Italiani, che a bordo dei velivoli da caccia Fiat C.R. 42 Falco e Fiat C.R. 32, senza radio a bordo, senza corazzature, senza una cabina chiusa e con scarso armamento, diventano anche oggetto di gravi incidenti, come quello capitato al Capitano Ernesto Botto, che il 12 ottobre del 1937, ai comandi di un C.R. 32 sui cieli di Saragozza, si imbatte in uno scontro con un caccia sovietico, dal quale riesce ad uscire vivo seppur mutilato di una gamba. In suo onore la 32° Squadriglia Caccia prende il nome di Gamba di Ferro. L’audacia e l’intelligenza dei nostri piloti si deve in gran parte all’opera di Balbo.
La guerra in Spagna è un banco di prova per la nostra aeronautica, che di lì a poco, affronta anche il secondo conflitto mondiale avendo come armamento principale solo il coraggio e l’abilità dei piloti, alla guida delle famose “vacche”, soprannome dei SM 79, 80, 81, 82.

Ostilissimo all’avvicinamento alla Germania, alle leggi razziali e all’entrata in guerra, si erge a vero e proprio difensore della comunità ebraica d’Italia. Tuttavia una grave sciagura colpisce l’Italia: il 18 giugno 1940, ad appena 18 giorni dall’ingresso dell’Italia in guerra, per un fatale e assurdo errore la contraerea italiana centra in pieno l’aereo di Italo Balbo che non era impegnato in nessuna missione, ma solo in un volo di ricognizione nei cieli africani, privando l’Italia di uno dei suo figli più forti, più arditi, più devoti.

 

ACHILLE STARACE
(1889-1945)

 

Il gerarca gran cerimoniere del regime, meritevole per la promozione di un corretto "modus vivendi", a fronte però di una grave esplosione retorica.


Achille Starace nacque a Sannicola di Gallipoli in Provincia di Lecce il 18 agosto 1889 da un’agiata famiglia di commercianti di vino ed olio. Studente non particolarmente brillante, nel 1905 si reca a Venezia per frequentare l’Istituto di Ragionieria. Quivi si sposa appena ventenne (1909) con Ines Massari, ponendo però la residenza di famiglia a Gallipoli. Frequentato il Corso Allievi Ufficiali nei Bersaglieri (1910), si congeda prima della guerra di Libia. Sempre in Veneto si dedica, come il padre, al commercio di vini, ma allo scoppio della Grande Guerra conosce e aderisce all’interventismo Mussoliniano e si arruola volontario. Combatté valorosamente distinguendosi subito per molti atti di coraggio e ottenendo una medaglia d’argento al valor militare, quattro di bronzo e diverse croci di guerra. Viene così promosso sul campo a Tenente e si congeda come Capitano.
Nel dopoguerra, divenuto Mussoliniano di ferro, è posto a capo dello Squadrismo tridentino, conducendo una vasta campagna propagandistica coadiuvato da Farinacci. Presidente del congresso di Bologna che nel gennaio 1922 vide la nascita della Confederazione delle Corporazioni Sindacali Fasciste, partecipò alla Marcia su Roma. Fu Commissario Politico del Gran Consiglio del Fascismo nel 1923. Nel 1924 viene eletto Deputato, nel 1926 è alla Vicesegreteria del Partito e diventa Luogotenente Generale della Milizia, entrando nel Gran Consiglio del Fascismo.
Giunge alla ribalta negli anni ’30 divenendo Segretario Generale del Partito Nazionale Fascista (1931-1939), promovendo una rinnovellata importanza politica della carica. In tale veste si fa carico in prima persona dell’inquadramento delle masse e della diffusione dello spirito e dell’etica Fascista. In quegli anni fu uno dei Gerarchi più importanti del Regno e fu il principale organizzatore delle adunate oceaniche e delle grandi manifestazioni del Regime. Sua l’introduzione del cosiddetto “sabato Fascista”, giorno dedicato alle manifestazioni pubbliche del Regime e di tutto il Popolo d’Italia, unito nel Fascismo, nonché all’attività sportiva ed alla ginnastica (sabato ginnico). ‘E inoltre lui il cerimoniere delle manifestazioni e delle adunate, codificandone minuziosamente l’etichetta. ‘E ancora lui l’inventore e il realizzatore di motti, saluti e di tutto uno stile che diventerà tipico e caratterizzante (dal saluto al Duce perfettamente codificato, al “voi” Fascista, dalle parate dell’Impero alla divisa d’orbace). Sotto la sua guida il Partito divenne un organo d’importanza sempre maggiore nella vita pubblica.
Questa impostazione ebbe da un lato molti grandi meriti, dall’altro alcuni difetti oggettivi. Tra i grandi meriti si annoverano: la difesa della lingua e della cultura Italiana con l’importantissima lotta per la purezza della lingua, contro le parole straniere od errate; la diffusione, anche con l’esempio, delle corrette pratiche igienico-sanitarie comprensive della promozione sportiva; l’istituzione delle Colonie marine e montane nonché delle Scuole rurali per i ragazzi, con il famoso “cambio d’aria” che tanta salute portò in ispecie alle popolazioni delle regioni povere. Tra i difetti oggettivi di quest’impostazione si trova invece un notevole eccesso di vuota retorica e di demagogia, a fronte di una scarsa reale diffusione dell’etica Fascista.
Con lo scoppio della Guerra d’Etiopia s’arruola volontario ed è posto al comando della mitica colonna celere, di cui lascerà scritte le memorie nel celeberrimo libro “La Marcia su Gondar”. Ottiene una nuova medaglia d'argento al valor militare.
Favorevole alle leggi razziali (1938), si allinea senza discutere all’alleanza con la Germania. Il 31 ottobre 1939 Starace viene sostituito da Muti alla Segreteria del Partito e diventa Comandante e Capo di Stato Maggiore della MVSN. Con la guerra di Grecia dell'ottobre del 40 è in prima linea al comando della Milizia, ma, dopo numerose sconfitte, rassegna le dimissioni.
Si ritira quindi dalla vita pubblica, rinunciando a tutte le cariche e conducendo vita schiva e spartana. Con l’avvento della RSI, si trasferisce a Milano, disponibile ad un eventuale chiamata del Duce. Tuttavia i tedeschi e gli stessi Repubblichini non si fidano di lui e lo confinano a Lumezzane, nel Bresciano, dal giugno al settembre del 1944, quando torna nel suo appartamento milanese.

Il 28 aprile 1945, tre giorni dopo la fuga di Mussolini da Milano, mentre in tuta da ginnastica fa la solita corsa mattutina in strada, assolutamente ignaro della sorte del Capo,  viene apostrofato da un gruppo di uomini, che quasi scherzando gli urlano “dove vai Starace?”; al che egli risponde “vado a prendere un caffè”. Ma purtroppo si tratta di banditaglie partigiane, che lo rapiscono trascinandolo in una scuola vicina per organizzargli un processo farsa e assassinarlo barbaramente e altrettanto barbaramente condurlo allo scempio di Piazzale Loreto.

 

GALEAZZO CIANO
(1903-1944)

 

Il brillante, ambizioso, giovane politico e diplomatico, i cui gravi errori di valutazione saranno forieri di sventura per la Patria, per il Regime e per lui stesso, la cui vita si tramutò d’improvviso da fiaba in tragedia.

Figlio dell'Ammiraglio Costanzo e di Carolina, Galeazzo Ciano di Cortellazzo nacque a Livorno il 18 marzo 1903. Durante la prima guerra mondiale si trasferì con la famiglia a Venezia e poi a Genova, dove conseguì la maturità classica. Di qui Ciano raggiunse definitivamente Roma nel 1921, in coincidenza con gli impegni politici del padre, e si iscrisse al PNF. Durante gli studi universitari fece pratica di giornalismo presso “Nuovo Paese”, “La Tribuna” e “L'Impero”. In questo periodo scrisse, senza successo, alcuni drammi teatrali. Laureatosi in legge presso l’Università di Roma nel 1925, non mostrò volontà di intraprendere la professione di avvocato, bensì la carriera diplomatica. Ebbe subito successo, iniziando una rapida carriera politica all'interno del Regime. Fu viceconsole a Rio de Janeiro, a Buenos Aires e, dal 1927, a Pechino (come Segretario di legazione).
Nel 1930 sposa Edda, figlia del Duce, divenendo Console a Shangai. Inviato straordinario e Ministro Plenipotenziario in Cina. Tornato in Italia nel giugno del 1933, è tra i componenti della delegazione italiana alla Conferenza economica di Londra. Nello stesso anno diviene Capo dell'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, curando personalmente la promozione e la vigilanza su stampa, editoria, radio e cinema. Trasformò quindi l'ufficio in Sottosegretariato per la stampa e la propaganda, divenuto nel 1935 Ministero.

 

Membro del Gran Consiglio del Fascismo dal 1935, partecipò volontario alla guerra d'Etiopia comandando la leggendaria 15° squadriglia aerea da bombardamento, detta “Disperata” in ricordo di una vecchia Squadra d'azione Fascista di Firenze, sostituito nelle funzioni di Ministro dal Sottosegretario Dino Alfieri. Ottenne due medaglie d'argento al valore. Conte di Cortellazzo dal 1936, tornò l'anno successivo a Roma come addetto all'Ambasciata presso la Santa Sede. Dimostratosi sempre più brillante e capace, nel 1936 stesso, a soli 33 anni, fu nominato Ministro degli Esteri; favorevole alle relazioni tra Italia e Germania, rilanciò la politica italiana nella zona danubiano-balcanica, nell'ottica dell’imperialismo mediterraneo.
Con l’avvio della guerra civile spagnola nel 1936, organizzò immediatamente consistenti aiuti e truppe di volontari che avrebbero aiutato valorosamente il fratello spagnolo nel cimento per giungere al trionfo della civiltà sulla barbarie marxista e repubblicana.
Dal 21 al 23 ottobre del 1936, Ciano compì la sua prima visita in Germania; dopo un primo colloquio con il collega tedesco von Neurath, a Berchtesgaden Ciano consegnò a Hitler, con una prassi inusitata in diplomazia, un dossier antitedesco preparato dal ministro degli esteri inglese Anthony Eden per il suo gabinetto e inviato a Roma dall'ambasciatore Dino Grandi, a riprova della volontà italiana di operare una scelta di campo. Il 22 ottobre, mentre veniva firmato tra Germania e Giappone il patto Anticomintern, Ciano e Neurath concordarono un atteggiamento comune riguardo alla Spagna e agli aiuti ai patrioti Franchisti. Solo in quell’occasione il governo tedesco procedette ufficialmente al riconoscimento dell'Impero Italiano. Pochi giorni dopo, il 1° novembre, Mussolini a Milano annunciava la nascita dell'Asse Roma-Berlino.

 

Tuttavia, nel momento stesso in cui operava l'accostamento alla Germania, Ciano tentò di controbilanciare la mossa con una spinta della politica Italiana nell'area danubiano-balcanica. L'11-12 novembre 1936 ebbe luogo a Vienna la prima conferenza dei Ministri degli esteri d'Italia, Austria e Ungheria che contribuì a consolidare i rapporti con quei Paesi. Alla fine del settembre del 1936 fu firmato un accordo Italo-Jugoslavo che segnava la ripresa dei rapporti economici dopo le sanzioni e il 25 marzo 1937 Ciano firmava a Belgrado accordi politici ed economici che ponevano fine, provvisoriamente, alla lunga tensione fra i due Paesi. Gli accordi di Belgrado, inoltre, sembravano isolare la Grecia, saldamente alleata della Gran Bretagna e preludere a una ripresa della tensione italo-inglese, dopo il breve riavvicinamento seguito al gentlemen's agreement, firmato da Ciano e l'ambasciatore britannico a Roma il 2 gennaio 1937, con l'impegno al reciproco rispetto degli interessi mediterranei. L'andamento controverso dei negoziati Italo-Britannici, con il mancato riconoscimento dell'Impero, convinsero Ciano e Mussolini che le demoplutocrazie occidentali potevano accettare solo il linguaggio della forza e dei fatti compiuti e contribuirono a orientare in senso filotedesco la politica italiana. Il 6 novembre l'Italia aderì, quale membro originario, al patto Anticomintern, legandosi così anche all’Impero Nipponico. Era il sorgere del Tripartito.
Tuttavia in questo periodo, sempre decisamente in ritardo sugli eventi, Ciano manifesta i primi dubbi e le prime oscillazioni che faranno di lui, che era stato l'antesignano dell'Asse e il Gerarca oggettivamente più propenso all'alleanza Italo-Tedesca, un fiero oppositore della guerra voluta fermamente dai Tedeschi. Il 29 ottobre '37 scriveva sul Diario: “Nessuno può accusarmi di ostilità alla politica filotedesca. L'ho inaugurata io. Ma, mi domando, deve la Germania considerarsi una meta, o piuttosto un terreno di manovra?”. In effetti, la politica di avvicinamento nei confronti della Germania era stata intesa da Ciano come strumento di pressione volto a modificare l'atteggiamento delle potenze occidentali e a rafforzare il potere contrattuale dell'Italia Fascista. Ciano si accorgeva ora che l'alleanza con la Germania, da “carta di una manovra” rischiava di trasformarsi in “gabbia funesta”.

Approssimandosi chiaramente l'Anschluss dopo l’assassinio di Dolfuss, amico personale del Duce, Ciano escludeva ogni possibilità di intervento attivo che contrastasse le mire hitleriane, nonostante la profonda amicizia che legava l’Italia all’Austria. Progettava di costruire un nuovo sistema da sostituire al triangolo Roma-Vienna-Budapest, un asse orizzontale Roma-Belgrado-Budapest, più periferico, ma secondo Ciano più sicuro perché garantito dalla caratterizzazione anticomunista del nuovo capo jugoslavo Stojadinovic. Di fronte al fatto compiuto dell'Anschluss, Ciano celebrò l'avvenimento come un fattore di semplificazione nella situazione europea e di stabilità continentale.

In questo clima maturò il primo esplicito progetto di occupazione dell'Albania, chiaramente formulato da Ciano nella relazione inviata a Mussolini il 25 maggio 1938 in occasione del matrimonio di Re Zogu, al quale egli aveva assistito a Tirana. In quell'ampio documento, Ciano espresse la possibilità di cogliere i fermenti filo-Italiani albanesi per intraprendere quella politica espansionistica nei balcani, strettamente legata all’irredentismo dalmata, che avrebbe fatto dell’Italia la potenza mediterranea per eccellenza. Cogliendo l'occasione offerta dal nuovo atto di forza compiuto dalla Germania con l'occupazione di Praga, tra la fine di marzo e gli inizi di aprile del 1939, Ciano organizzò l’annessione del Regno d’Albania, già predisposta fin dall'anno precedente. Vincendo le iniziali resistenze dello stesso Mussolini, che temeva ripercussioni sfavorevoli in Jugoslavia a favore della Germania, Ciano spedì a Tirana uno schema di trattato che imponeva ufficialmente il Protettorato Italiano, con condizioni di netta limitazione della già precaria sovranità albanese. Di fronte alla riluttanza di Re Zogu, Ciano e Mussolini fecero presentare un nuovo testo, accompagnandolo con un ultimatum che scadeva il 6 aprile. Il giorno successivo le truppe italiane sbarcarono in Albania e procedettero senza incontrare resistenza. Il Regno d’Albania veniva ufficialmente dichiarato in unione reale e personale col Regno d’Italia e il Re Vittorio Emanuele III succedeva a Re Zogu, nel frattempo fuggito, sul Trono d’Albania. Ciano aveva sempre considerato questa impresa come suo obiettivo personale e si legò fortemente al Popolo Albanese, col quale volle condividere onori ed oneri. In onore della moglie fece ribattezzare il porto di Santi Quaranta in Porto Edda.
Vista però la costante arroganza delle demoplutocrazie occidentali, si risolse col Duce di stipulare un accordo ancor più vincolante con la Germania nazionalsocialista. La cosa maturò durante i colloqui di Milano fra Ciano ed il collega tedesco Ribbentrop del 6 e 7 maggio 1939: era il Patto d’Acciaio, incredibilmente vincolante per l’Italia, rivelatosi un errore fatale.

 

Allarmato dai messaggi che giungevano dall'ambasciatore Attolico, partì alla volta di Salisburgo, per sincerarsi delle reali intenzioni dell'alleato germanico di fronte all'esplodere della tensione con la Polonia. Fin dal primo incontro con Ribbentrop, Ciano si convinse che la Germania voleva la guerra e che l'avrebbe provocata in ogni modo; lo stesso Hitler confermò a chiare lettere il giorno dopo questi propositi, dando ormai per concluso il patto con l'Unione Sovietica e facendo intendere caduti quindi gli ultimi ostacoli che si frapponevano alla guerra. Dai colloqui di Salisburgo e Berchtesgaden Ciano tornò deciso a impedire a Mussolini di subire la politica di Hitler, ma in nessun caso fu prospettata la denuncia del patto con la Germania. La decisione di non intervenire subito, a causa delle condizioni disastrose dell'armamento italiano, fu presa rapidamente; ma, per l'influsso che considerazioni di lealtà formale alla parola data avevano presso Mussolini, la decisione fu sempre prospettata come temporanea, secondo un'eventualità già prevista e ammessa da Hitler, e la questione dell'intervento italiano fu strettamente legata all'aiuto economico e militare tedesco, per mettere l'Italia in condizioni di combattere. La via d'uscita fu trovata nella convulsa giornata del 25 agosto, quando Ciano trasmise all'ambasciatore Attolico una lista incredibilmente sproporzionata di materie prime che l'Italia chiedeva ai tedeschi come condizione per l'intervento.

Il primo settembre 1939, a ostilità ormai avviate, il Consiglio dei Ministri poteva decidere per la “non belligeranza” (formula significativamente usata al posto di “neutralità”) dell'Italia. Ciano in questo periodo si adoperò soprattutto per realizzare un allentamento della tensione con Francia e Gran Bretagna, che si rivelò propizio almeno per un'intensificazione degli scambi commerciali.

Il nuovo gabinetto formato nell'ottobre 1939 fece emergere come Ministri uomini vicini alla posizione di Ciano. La scelta della non belligeranza fu confermata anche dal Gran Consiglio del Fascismo il 7 dicembre 1939. In quell’occasione, Ciano sviluppò le argomentazioni poi ripetute pubblicamente il 16 dicembre del 1939 alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni. In questo discorso, che costituì il documento più rilevante di questa fase della politica estera italiana, Ciano ricostruì le motivazioni che avevano indotto alla scelta compiuta, non tacendo le inadempienze tedesche, ma presentò la non belligeranza come “strettamente conforme all'intenzione di localizzare il conflitto rigidamente derivante dai Patti nonché dagli impegni collaterali esistenti fra l'Italia e la Germania”; inserì punte antisovietiche e un tono maggiormente disteso verso le potenze occidentali. Sul piano pratico, non veniva presa nessun'altra scelta che non fosse quella del proseguimento della non belligeranza connessa sempre con la riaffermata disponibilità a battersi a fianco dell'alleato al momento più opportuno. La decisione dell'intervento maturò nel marzo 1940 e fu definita negli incontri con Ribbentrop a Roma e con Hitler al Brennero ai quali Ciano fu presente. Col passare delle settimane e col susseguirsi dei successi tedeschi, sembrò convincersi della inevitabilità della vittoria del Reich. Accettati passivamente i termini della soluzione armistiziale con la Francia imposti dai tedeschi, Ciano si dedicò alla preparazione dell’offensiva Italiana in Grecia, trascurando colpevolmente l’Impero e il “Piano Mediterraneo” proposto dal Duca d’Aosta, e promuovendo una guerra parallela a quella svolta dall’alleato germanico.

Nella riunione del 15 ottobre '40 Ciano, insieme a Mussolini e ai Generali Badoglio, Soddu, Jacomoni, Roatta e Visconti Prasca predispose i particolari dell’offensiva. L'operazione, presto fallita e tramutatasi in disfatta, segnò, con il successivo intervento risolutore delle forze armate tedesche, la fine di ogni illusione di guerra parallela e l'inizio della definitiva e consapevole subalternità Italiana alla guerra hitleriana.

Tra il marzo e l'aprile del 1941, Ciano accettò con favore la sistemazione balcanica predisposta dai tedeschi, oggettivamente per noi molto positiva. Essa riservava all’Italia: l’annessione di gran parte della Slovenia, la redenzione di buona parte della Dalmazia, la formazione di un Regno Croato soggetto all’influenza Italiana con l’insediamento al Trono del Principe Sabaudo Aimone d’Aosta (che assunse il nome di Tomislao II), la ricostituzione del Regno del Montenegro pure sotto influenza Italiana, l’ampliamento delle frontiere del Regno d’Albania a danno della Grecia, la riduzione della Jugoslavia praticamente alla sola Serbia.

Sul fronte occidentale si fece strada il sogno di ritornare alla Patria il Nizzardo, la Savoia e la Corsica, già parzialmente occupate. In questa fase Ciano si adoperò, senza successo, per coinvolgere la Spagna Franchista nella guerra.

Durante il colloquio veneziano con Ribbentrop del 15 giugno fu chiaramente edotto del peggioramento delle relazioni tedesco-sovietiche e della ormai probabile e prossima offensiva contro la tirannide bolscevica; nonostante ciò, la notizia della nuova gigantesca operazione militare tedesca colse impreparato il Governo Italiano. Ciano non prese parte alla successiva definizione della politica estera nel nuovo quadro determinato dalla campagna di Russia, in quanto dalla fine di luglio alla seconda decade di settembre si assentò dal Ministero per motivi di salute. Pur partecipando a nuovi colloqui di aggiornamento sulla situazione militare con i dirigenti tedeschi, la sua attività politica e diplomatica apparve, nel corso di tutto il 1942, molto ridotta. La subalternità alla politica tedesca aveva posto il Governo Fascista in una situazione senza vie d'uscita, aggravata dalle nuove sconfitte militari che cominciavano ormai a coinvolgere tutte le forze dell'Asse e a rendere quanto mai prossima e prevedibile la prospettiva di uno sbarco angloamericano nella penisola.

Nel febbraio 1943, all'interno di una situazione militare ormai insostenibile, si assisteva ad un nuovo cambio di gabinetto ed il sesto Governo Mussolini poneva al dicastero degli Esteri il Duce stesso. Ciano chiedeva e otteneva la nomina ad Ambasciatore presso il Vaticano, che gli consentiva di restare in contatto con la vita politica della capitale e di avere rapporti con i rappresentanti delle potenze occidentali (“un posto di riposo, che però può lasciare adito a molte possibilità per l'avvenire”, annotava nel Diario).

Dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia, fu informato della volontà della maggioranza dei membri del Gran Consiglio di sfiduciare Mussolini. Il pomeriggio del 23 luglio 1943 aderì all'iniziativa e collaborò con Grandi e Bottai alla stesura definitiva del testo. Pensava allora a una possibile lista di successione che comprendesse i tre, da rimettere, secondo le procedure costituzionali, al Re. Nella seduta del 25 luglio, Ciano intervenne al fianco di Grandi, senza polemizzare con Mussolini, ma svolgendo argomentazioni di politica estera che retrospettivamente ricostruivano le inadempienze dei tedeschi nei confronti delle clausole dell'alleanza, per vincere la riluttanza di molti altri ad impugnarla. Il problema è che queste accuse alla politica estera passata dell’Italia non potevano non apparire come autoaccuse, in quanto gravi responsabilità per come erano state gestite le cose l’aveva proprio lui, Ciano. L'ordine del giorno Grandi fu comunque approvato con 19 voti favorevoli, fra cui quello di Ciano.

Colto alla sprovvista dal colpo di stato badogliano, tentò senza successo di ottenere il passaporto per la Spagna, dove gli era stato assicurato asilo politico; spaventato si risolse a chiedere, contraddittoriamente, l'aiuto ai tedeschi per l'espatrio. Il 27 agosto Ciano e la famiglia furono fatti fuggire dal servizio segreto tedesco e trasportati in Germania. Dopo l'armistizio di Cassibile e la successiva costituzione della RSI, il nome di Ciano fu incluso nella lista dei traditori che i repubblichini volevano giustiziare per il voto del Gran consiglio; anche i tedeschi fecero pressione in tal senso.

Nonostante il miglioramento dei rapporti tra Ciano e Mussolini, grazie anche all'intercessione di Edda, il 19 ottobre Ciano fu trasferito da Monaco a Verona, dove fu consegnato alla polizia della RSI e rinchiuso nel carcere degli Scalzi. Il processo, svoltosi in condizioni di assoluta illegalità e arbitrio giuridico, si concluse con la sua condanna a morte. Dopo un vano tentativo a opera della moglie di scambiare la sua vita con la consegna dei suoi Diari, al cui possesso i nazisti tenevano molto per evitare il contraccolpo sul piano propagandistico che la loro pubblicazione avrebbe probabilmente suscitato, la mattina dell'11 gennaio 1944 Ciano veniva fucilato alla schiena nel poligono di tiro della fortezza di San Procolo, a Verona.

 

ETTORE TOLOMEI
(1865-1952)

 "Il Redentore dell'Alto Adige"

 

Il Conte Ettore Tolomei nacque a Rovereto, in Provincia di Trento, allora austriaco, il 16 agosto 1865 dal Conte Tolomeo e la Contessa Olimpia. Giovinotto, si appassiona a Garibaldi e diventa irredentista. Laureatosi, diventa giornalista e Professore, cominciando a scrivere su giornali e riviste articoli contro l'Austria che destano i sospetti delle autorità; perciò si allontana spesso dal Trentino e cerca di ottenere consensi per le sue idee a Roma.

Già allora ebbe un’idea chiara e precisa: il confine d'Italia dev'essere spostato al Brennero. Nel 1904, compiendo un'escursione in Valle Aurina sale il Glockenkarkopf, alto 2912 metri, sullo spartiacque fra l’Alto Adige ed il Salisburghese, scolpisce nella roccia la parola “Italia” e ribattezza il monte con il nome con cui è noto anche oggi: Vetta d'Italia. Per Tolomei la Vetta d'Italia dovrà diventare il punto più a nord della penisola. Il fine politico di Tolomei sarà, da questo momento in avanti, quello di impegnarsi con tutte le forze, senza risparmio di mezzi, per far giungere il confine d'Italia allo spartiacque alpino.

Nel 1906, anno in cui si trasferisce a Gleno di Montagna nel bolzanino, Tolomei fonda a Trento il suo “Archivio per l'Alto Adige con Ampezzo e Livinallongo”, un periodico su cui egli pubblica sempre nuovi articoli con i quali cerca di rivendicare il diritto dell'Italia sull’allora Sudtirolo. Sull'Archivio, Tolomei sviluppa la predetta teoria dello spartiacque, secondo la quale il confine fra l'Italia e l'Austria deve essere spostato al Brennero, perché su quel passo c'è lo spartiacque fra il Mediterraneo ed il Mar Nero, confine naturale voluto da Dio. Sull'Archivio Tolomei comincia ad italianizzare la toponomastica alloglotta, trasformandola nella futura toponomastica altoatesina, coniando oltre 8.000 toponimi. Sull'Archivio egli sollecita in seguito l’italianizzazione dei cognomi germanizzati.

Con la Grande Guerra è il momento di agire e Tolomei si reca alla conferenza di pace di Saint Germain dell’aprile 1919, ottenendo il ruolo di Consigliere del Capo-delegazione Vittorio Emanuele Orlando per l’Alto Adige. Riesce così brillantemente ad ottenere: che in Alto Adige non si tenga alcun plebiscito; che il Sudtirolo venga annesso al Regno col nuovo nome, di origine napoleonica, di Alto Adige; che non sia concessa alle minoranze alloglotte alcuna tutela internazionale né alcuna autonomia; che il confine sia spostato al Brennero. Ciò è ufficialmente ottenuto con la firma del trattato di pace appunto di Saint Germain il 10 settembre 1919. Il Trentino (Provincia di Trento) e l’Alto Adige (Provincia di Bolzano) formano così la nuova regione geografica della Venezia Tridentina.

Tolomei poté vantarsi di un eccezionale successo politico, presentandosi sul suo Archivio come “padre del confine al Brennero”. Per le sue eminenti benemerenze verso la Patria, il Re lo nominò Senatore del Regno il 1° marzo 1923.

Iscritto al PNF sin dal 1° marzo 1921, diventa il principale esponente del Fascio bolzanino. In tale veste si adopera strenuamente per l’Italianizzazione dell’Alto Adige. ‘E tra i promotori dell’innalzamento del monumento alla Vittoria presso il ponte Talvera, a Bolzano.

Nel giugno 1923 organizza l’occupazione del Municipio di Bolzano e la deposizione dell’ultimo borgomastro tedesco, Julius Perathoner.

Il 15 luglio 1923, con un memorabile discorso al Teatro Civico di Bolzano, iniziato con un entusiastico “Camerati fascisti! Spunta l'alba radiosa di una nuova epoca, oggi inizia a Bolzano l’Era Fascista”, si fa promotore di un manifesto per l’Italianizzazione dell’Alto Adige in 32 punti, riassumibili come di seguito: proibizione dell’uso ufficiale del tedesco; Italiano unica lingua ufficiale; chiusura delle scuole tedesche; scioglimento dei partiti tedeschi; trasferimento degli impiegati allogeni; italianizzazione totale della toponomastica alloglotta, comprensiva di cognomi, strade e vie; soppressione dei giornali tedeschi. L’opera di sradicamento del germanesimo è seguita costantemente dal Governo centrale e dal Duce in prima persona.

Bolzano contava allora 40.000 abitanti, in maggioranza tedeschi. Tolomei si prefisse di ingrandire la città con l’obiettivo di raggiungere i 100.000 abitanti, favorendo l’immigrazione di Italiani provenienti dalle altre Province. Nell'estate 1935 inizia la costruzione di un’ampia zona industriale presso i prati di Agruzzo; contemporaneamente a sud-ovest della città sorgono nuovi quartieri organizzatissimi, con caseggiati, scuole, chiese, istituzioni sociali. Quando le prime fabbriche cominciano a funzionare, arriva anche la prima ondata di immigrati; nel 1936 sono circa 4.000, nel 1937 quasi 8.000. Bolzano diventa così una grande città più marcatamente Italiana.

Alla fine degli anni trenta Tolomei ha un grande ruolo nel celeberrimo accordo Mussolini-Hitler sulla questione altoatesina: si tratta delle “opzioni”, ovvero la migrazione volontaria nel Grande Reich Germanico dei sudtirolesi tedeschi e ladini che sceglieranno la cittadinanza tedesca. Tale soluzione ebbe un precursore nell’irredentista Adriano Colocci-Vespucci, che già prima della Grande Guerra disse a Tolomei: “La soluzione migliore per risolvere il problema della minoranza in Alto Adige è quella di ricacciare in massa i tedeschi oltre il Brennero”.

Tolomei è entusiasta della situazione: ormai lo scopo è totalmente raggiunto. Grazie a Mussolini e Hitler la questione altoatesina sta giungendo a soluzione. Egli scrive nel suo Archivio: “Il trattato fra Roma e Berlino sul trasferimento dei sudtirolesi nel Reich Germanico è qualcosa di meraviglioso, la cosa più grande che sia stata intrapresa dalla Guerra in qua per l'assimilazione dell'Alto Adige”. In questo periodo accresce anche la sua attività parlamentare, divenendo Membro della Commissione dell'Educazione Nazionale e della Cultura Popolare (17 aprile 1939-14 novembre 1940) e Membro della Commissione degli Affari Esteri, degli scambi commerciali e della legislazione doganale (14 novembre 1940-5 agosto 1943).

Tuttavia non si riuscirà a completare la ratifica delle “opzioni”: giunge il II conflitto mondiale, che travolge ogni desiderio ed ogni speranza. Tolomei, distrutto dagli eventi, si ritira a Roma, dove morirà il 25 maggio 1952.

 

GIACOMO ACERBO
(1888-1969)

 "Il Combattente, il Tecnico, il fine politico"

 

 Giacomo Acerbo nasce a Loreto Aprutino, nel pescarese, il 25 luglio 1888, da antica e Nobile famiglia locale. Laureatosi in Scienze Agrarie a Pisa nel 1912, si affilia alla massoneria Interventista; si arruola volontario nella Grande Guerra.
Decorato con tre Medaglie d’argento al valor militare e congedato col grado di Capitano, si avvia alla carriera universitaria come assistente di discipline economiche. Contemporaneamente promuove l'Associazione dei Combattenti di Teramo e Chieti che, dopo le elezioni del 1919, si stacca dalla Associazione nazionale e costituisce il Fascio di combattimento provinciale.

Eletto nel 1921 con il Blocco nazionale, si pone come moderatore degli eccessi squadristici locali. A livello nazionale contribuisce al patto di pacificazione con i socialisti e a novembre viene eletto nel comitato centrale del PNF. Durante la Marcia su Roma tiene i contatti con il Quirinale e con Montecitorio, controllando lo svolgersi inquadrato della Rivoluzione. Accompagna poi Mussolini a ricevere dal Re l'incarico ministeriale e lo assiste nella formazione del Governo, assumendo l'incarico di Sottosegretario alla Presidenza.

Lega il suo nome alla riforma elettorale maggioritaria, appunto la legge Acerbo, votata nel novembre 1923. Nuovamente deputato nel 1924 e insignito del titolo di Barone dell’Aterno, è coinvolto marginalmente nelle inchieste sul delitto Matteotti e lascia il Sottosegretariato alla Presidenza del Governo (1924).
Nel 1924 istituisce la Coppa Acerbo in memoria del fratello Tito Acerbo, Medaglia d’oro al valor militare. Nel gennaio 1926 viene eletto Vicepresidente della Camera, carica che detiene sino al 1929, quando diventa Ministro dell'Agricoltura e delle Foreste e si dedica ai progetti di bonifica integrale. Contribuisce con Gabriele d'Annunzio all’istituzione della Provincia di Pescara nel gennaio 1927. Nel 1934 è Preside della Facoltà di economia e commercio di Roma.
Dal 1935 al 1943 è Presidente dell'Istituto internazionale di agricoltura. Membro del Gran Consiglio del Fascismo, nel 1938 è relatore sul disegno di legge per la trasformazione della Camera dei Deputati in Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

Durante la seconda guerra mondiale è Colonnello di Stato Maggiore sui fronti alpino e balcanico. Nel febbraio 1943 è nominato Ministro delle Finanze e del Tesoro.
Il 25 luglio vota a favore dell'ordine del giorno Grandi e dopo l'8 settembre ripara in Abruzzo, dove si nasconde, colpito dalla condanna a morte emessa dal Tribunale di Verona della RSI. Catturato dai partigiani, è condannato anche qui alla pena di morte, poi commutata in 48 anni di reclusione. Annullata la sentenza dalla Cassazione, viene riabilitato e nel 1951 è riammesso all'insegnamento universitario.

Successivamente nominato all’unanimità dal Senato Accademico dell'Università La Sapienza di Roma Professore Emerito, nel 1962 viene insignito dal Presidente della Repubblica Antonio Segni della Medaglia d’oro per i benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. Nel 1953 e nel 1958 si candida alle elezioni con i Monarchici del PDIUM, ma senza successo.

Appassionato collezionista di antiche ceramiche di Castelli, nel 1957 apre ai visitatori di tutto il mondo le porte della Galleria delle antiche ceramiche abruzzesi. Morì a Roma il 9 gennaio 1969.
 

 

RENATO RICCI
(1896-1956)

"Il grande organizzatore dei Balilla, il costruttore, l'Ardito carrarese"

 

Renato Ricci nacque a Carrara il 1° giugno 1896 da una famiglia di cavatori, nipote di un vecchio garibaldino. Dopo il diploma di Ragioniere, s’impegnò per la causa irredentista e si arruolò volontario nei Bersaglieri nel 1915, partecipando alla campagna per la redenzione di Trieste, meritandosi due medaglie al valore ed una croce al merito. Divenuto Ufficiale Comandante di una pattuglia di Arditi, segue D’Annunzio nell’impresa fiumana del 1919, muovendo dal Monte Nevoso. Coi Legionari occupa tutto il Carnaro e Zara; consegue successivamente il brevetto di pilota; in questo periodo conosce e frequenta anche Marinetti.
Tornò quindi a Carrara dove trasformò l’Arditismo in Squadrismo e fondò il Fascio locale, organizzandosi per la Marcia su Roma (1922).
Divenuto Alto Commissario del Partito, si occupa della sua città, ristrutturando l’ospedale, costruendo le case popolari, la nuova Accademia delle Belle Arti, promuovendo l’industria marmifera.
Nel 1924 è eletto Deputato e fonda il Consorzio Marmi. Nel 1926 è Sottosegretario all’Educazione Nazionale, con il compito di riorganizzare la gioventù specialmente dal punto di vista morale e fisico. Si reca pertanto presso il celebre Baden-Powell in Inghilterra per studiare lo scoutismo, traendone importanti consigli. Di qui in America per studiare il sistema dei colleges. Quindi in Germania, dove conosce i movimenti artistico-architettonici della Bauhaus e di Gropious.
Anche sulla scorta di queste esperienze fonda l’Opera Nazionale Balilla (ONB), alla cui Presidenza sarà dal 1926 al 1937.
Realizza così 900 Case del Balilla e della Piccola Italiana, tutte con palestre, piscine, biblioteche, sale di riunione, giardini. Realizza inoltre ben 12 Collegi e una nave scuola (la Palinuro).
Ma la sua opera più grandiosa è lo
Stadio dei Marmi al Foro Mussolini (1930-34), opera architettonica straordinaria, che fu costruita con marmo di Carrara (senza toglierne un briciolo per le altre costruzioni ed utilizzando scarti di pezzi più grossi), avvalendosi di eccellenti giovani scultori portati così alla ribalta.
Circa l’attività dell’ONB, da segnalare le importanti crociere all’estero organizzate da Ricci per i giovani, nonché tutte quelle attività che in breve portarono salute fisica e morale alla gioventù Italiana.
Nel 1937 divenne Sottosegretario alle Corporazioni e quindi Ministro (1939-1943). In tale veste organizzò il difficile momento autarchico dell’industria Nazionale.
Nel 1940 decide di partire volontario per la guerra in Albania, tornandone pluridecorato. Esonerato dall’incarico di Ministro nel febbraio 1943, si ritira in campagna.
Dopo l’8 settembre 1943 decide di ribellarsi a Badoglio ed eludendo la sorveglianza fugge in Germania dove, con i tedeschi, organizza la liberazione del Duce e contribuisce alla nascita della RSI. Diviene così Comandante della nuova Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). In tale veste entra in disaccordo con Graziani, essendo fortemente contrario alla coscrizione, volendo mantenere lo spirito volontaristico originario della Milizia. Alla metà del 1944 Ricci si dimette dall’incarico, mantenendo la Presidenza di una risorta ONB.
Col 25 aprile del 1945 si dà alla latitanza, per tornare allo scoperto solo con l’amnistia.
Nel secondo dopoguerra si occupò di industria e di affari con la Germania. Divenne altresì, con Graziani Presidente e assieme a Borghese, Vicepresidente dell’Associazione Combattenti e Reduci della RSI . M
orì a Roma il 22 gennaio 1956.

 

CARLO SCORZA
(1897-1988)

 

Nato a Paola, nel Cosentino, il 15 giugno 1897, si trasferì a Lucca ancora adolescente, diplomandosi in ragioneria. Partecipa come volontario alla Grande Guerra, con il grado di Tenente nei Bersaglieri, guadagnandosi due medaglie di bronzo al valore militare.

Si iscrive ai Fasci di Combattimento nel dicembre 1920. Giornalista dal 1920, è direttore de “L’Intrepido”, fondatore del “Popolo di Toscana” e Capo dello Squadrismo Lucchese durante la Rivoluzione Fascista. Dal 1931 è direttore di “Gioventù Fascista”.
Durante il Regime ricopre le cariche di Segretario Federale di Lucca (1921-29) e di Commissario Straordinario di Forlì (1928-29). Deputato dal 1924 al 1939 e membro del Direttorio Nazionale del PNF (1929-31), nel dicembre 1932 viene ufficialmente deplorato per aver scatenato repressioni contro l’associazionismo Cattolico.
Volontario nel conflitto etiopico e nella guerra civile spagnola, durante gli anni della Segreteria di Starace rimane in posizione notoriamente polemica contro la burocratizzazione del Partito e dello Stato.
Consigliere Nazionale (1939-43), membro della Corporazione della chimica (1938-41) e della Corporazione della siderurgia e metallurgia (1941-42), presidente dell'Ente della stampa (1940-43). Vice-segretario del PNF dal dicembre 1942, il
17 aprile 1943 diventa Segretario Generale del Partito, carica che mantiene fino al 25 luglio 1943, impegnandosi nella lotta contro il dilagante disfattismo.

 

Dopo l'arresto di Mussolini, presenta atto di sottomissione a Badoglio, riuscendo così a ingraziarselo, ma con la nascita della RSI viene arrestato dai repubblichini e incarcerato a Verona con l'accusa di tradimento (28 ottobre 1943). Processato a Parma nell'aprile 1944 viene assolto e confinato a Cortina d'Ampezzo, donde si appella più volte, inutilmente, a Mussolini.
Arrestato dopo la guerra dai partigiani a Gallarate (23 agosto 1945), riesce a evadere, riparando in Argentina, dove partecipa alla politica locale divenendo un acceso peronista.
Rientra in italia soltanto alla fine degli anni ‘70, morendo a Castagno d’Andrea il 23 dicembre 1988.

 

COSTANZO CIANO
(1876-1939)
Eroe della "Beffa di Buccari", inventore dei mezzi di comunicazione di massa italiani.

 

Nato a Livorno il 30 agosto 1876, Costanzo Ciano entra nell'Accademia Navale della sua città nel 1891 ed è nominato Guardiamarina nel 1896, Sottotenente di Vascello nel 1898, Tenente di Vascello nel 1901.
Esperto di armi subacquee, combatte in Libia e nella Grande guerra, prendendo parte soprattutto alle
azioni dei MAS (di cui è Ispettore dal luglio 1917 al maggio 1919), ed è protagonista della celebre beffa di Buccari con D'Annunzio (10-11 febbraio 1918), divenendo Medaglia d'oro al valor militare e pluridecorato. Nell'agosto del 1915 è Capitano di Corvetta, nel giugno 1917 è promosso Capitano di Fregata. Promosso nell'agosto del 1918 Capitano di Vascello per meriti di guerra, nel maggio del 1919 viene collocato, a sua domanda, tra le forze ausiliarie, per passare all'impiego civile, come Direttore di una compagnia di navigazione di proprietà di Giovanni Agnelli.

Dal 1921, eletto Deputato per il Blocco nazionale, si dedica completamente alla politica, aderendo al Fascismo e divenendone il massimo rappresentante nella città natale. Sottosegretario alla Marina e Commissario alla Marina mercantile nel primo Ministero Mussolini (19 novembre 1922-5 febbraio 1924), cerca di ammodernare la flotta con premi di navigazione e di demolizione e introduce il nuovo Regolamento sulla sicurezza della vita umana in mare.

Nel febbraio 1924 diventa Ministro delle Poste e nel maggio 1924 diventa Ministro delle Comunicazioni, nuovo, grande ed unico dicastero comprendente la Marina Mercantile, le Poste, i Telegrafi e le Ferrovie. Personalità di spicco del Regime, riceve numerosi onori e riconoscimenti: nel luglio 1923 è Contrammiraglio di Divisione, poi Ammiraglio di Divisione; nel 1928 viene insignito dal Re dei titoli di Conte di Cortellazzo e di Buccari; il 24 settembre 1930 è chiamato a far parte del Gran Consiglio del Fascismo; nel 1931 è Ammiraglio di Squadra e nel 1936 Ammiraglio d’Armata. Già nel 1926 Mussolini lo aveva indicato al Re e al Gran Consiglio del Fascismo come suo eventuale successore.
Per oltre un decennio gestisce settori cruciali e sovrintende alla privatizzazione della telefonia urbana e alla riorganizzazione dell'amministrazione ferroviaria, contribuendo in modo decisivo al grande sviluppo strutturale del Regno di quegli anni. Amico del Marchese
Guglielmo Marconi, avvia una pionieristica rete di radiocomunicazioni direttamente gestita dallo Stato, promuove lo sviluppo del dopolavoro ferroviario e, nel 1928, istituisce l'Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), la futura RAI.

Dal 1934 è presidente della Camera dei Deputati e, per pochi mesi, della nuova Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1938).
Morì a Ponte a Moriano in Provincia di Lucca il 26 giugno 1939.

 

Personaggio

Vita Pubblicazione
     
Emilio De Bono 1866-1944 Aprile 2006
     
Michele Bianchi 1883-1930 Maggio 2006
     
Nicolino Bombacci 1879-1945 Luglio 2006
     
Cesare Maria De Vecchi 1884-1959 Agosto 2006
     
Roberto Farinacci 1892-1945 Settembre 2006
     
Dino Grandi 1895-1988 Ottobre 2006
     
Luigi Federzoni 1878-1967 Novembre 2006
     
Italo Balbo 1896-1940 Gennaio 2007
     
Achille Starace 1889-1945 Febbraio 2007
     
Giuseppe Bottai 1895-1959 Marzo 2007
     
Galeazzo Ciano 1903-1944 Maggio 2007
     
Rodolfo Graziani 1882-1955 Luglio 2007
     
Ettore Muti 1902-1943 Ottobre 2007
     
Alessandro Pavolini 1903-1945 Gennaio 2008
     
Giovanni Gentile 1875-1944 Febbraio 2008
     
Berto Ricci 1905-1941 Giugno 2008
     
Ettore Tolomei 1865-1952 Settembre 2008
     
Giacomo Acerbo 1888-1969 Ottobre 2008
     
Renato Ricci 1896-1956 Gennaio 2009
     
Carlo Scorza 1897-1988 Marzo 2009
     
Alfredo Rocco 1875-1935 Giugno 2009
     
Fernando Mezzasoma
Guido Buffarini Guidi
1907-1945
1895-1945
Ottobre 2009
     
Costanzo Ciano 1876-1936 Novembre 2009